Nell’autunno del 1969 una nuova monoposto gira all’Aerautodromo di Modena. Ha una sagoma bassa, filante, ma soprattutto alle spalle del pilota non c’è più l’intreccio di tubi di scarico che distingueva le Formula 1 Ferrari dal 1966. Anzi, osservandola bene, si nota che gli scarichi sono in basso, sotto ai tromboncini d’aspirazione. E il suono del motore non è quello di un V12 tradizionale. La monoposto si ferma, il pilota Chris Amon scambia qualche parola con l’ingegnere Mauro Forghieri e poi riparte per compiere giri su giri. E’ la Ferrari 312B, ormai definitiva nelle linee e nella configurazione tecnica, nuova monoposto su cui sono riposte le speranze di un immediato rilancio dopo l’esperienza negativa dell’anno prima. Ma perché a Maranello si è deciso di abbandonare il dodici cilindri a V di 60° a favore di una nuova geometria che prevede i cilindri contrapposti?
Tre gruppi di quattro cilindri
Le risposte sono molteplici, la prima delle quali è la ricerca di una maggiore competitività. Il V12 della precedente 312, pur sviluppato ed evoluto in configurazione a 48 valvole, resta un motore derivato dalla produzione stradale, quindi pesante e ingombrante per una F1. Al termine dello sviluppo è potente quanto i migliori Ford DFV, ma il V8 realizzato dalla Cosworth è nato per le corse, dunque molto più leggero ed efficiente; inoltre il V12 di Maranello con l’aumentare della potenza non è più affidabile come prima. C’è poi un aspetto squisitamente tecnico: la geometria a V di 180° abbassa il baricentro dell’auto, a vantaggio della tenuta di strada e maneggevolezza, e ne beneficia anche l’aerodinamica, che inizia a prendere piede, poiché si libera il flusso d’aria verso l’alettone posteriore. Ultimo motivo (ma non ultimo), la Franklin, costruttore americano di aerei, è alla ricerca di un motore piatto e compatto da inserire nelle ali dei suoi aeroplani.
E il nuovo dodici cilindri Ferrari è la soluzione ideale. La prospettiva di costruire un motore da F1, da vendere anche per altri scopi, sarebbe ideale per mettere d’accordo scelte tecniche e bilancio aziendale, anche dopo l’accordo con la Fiat. Ma la ditta americana fallisce e dell’impiego in aeronautica del V12 di 180° non se ne fa nulla. Tornando all’attività di progettazione in vista della stagione 1970, la Ferrari non parte con un nuovo progetto di motore senza prima averlo sperimentato. Il “boxer”, com’è anche impropriamente definito, è collaudato sulla 212 E, vettura Sport di due litri con la quale lo svizzero Peter Schetty, nel 1969, vince a mani basse il titolo Europeo della Montagna.
E l’ottimo comportamento di quel due litri induce all’ottimismo, anche perché il “fratello maggiore” di tre litri per la F1, con i suoi 145 kg, beneficia di una consistente riduzione di peso rispetto al vecchio V12. In più è un motore corto e compatto, con attriti interni ridotti, un risultato al quale Forghieri arriva montando l’albero a gomiti su soli quattro supporti di banco in luogo dei canonici sette, pur potendo aggiungerne un quinto se la rigidezza non si dimostrasse, all’atto pratico, sufficiente.
Subito tanti CV, ma Amon se ne va
In pratica il V 180° è formato da tre gruppi di quattro cilindri contrapposti, tra i quali sono interposti due supporti di banco, mentre gli altri due si trovano alle estremità.
L’idea finale (e risolutiva) è di interporre tra l’albero a gomiti e il volano un giunto di gomma speciale, appositamente realizzato dalla Pirelli, per smorzare le vibrazioni. Fatto il motore, bisogna alloggiarlo nella macchina. Per questo la monoscocca della 312 B è progettata con una trave posteriore che sostiene il motore (appeso) e l’alettone. In quegli anni la ricerca aerodinamica è volta a ridurre la sezione frontale della monoposto per diminuire la resistenza dell’aria, cercando contemporaneamente di mantenere elevato il carico dato dagli alettoni senza penalizzare troppo la velocità. La forma tipica delle F1 di quegli anni rivela questo tipo di approccio, mentre le gomme hanno la carcassa a tele incrociate e il battistrada scolpito. In qualche caso si era posto il problema di scaricare a terra tutta la potenza, tanto che si erano viste nel corso del 1969 alcune monoposto a quattro ruote motrici.
La loro competitività era scarsa, ma sembra una strada tecnica plausibile per il futuro. Le cose vanno però diversamente perché le monoposto a trazione integrale saranno bandite dalla massima serie, ma quando Forghieri comincia il progetto della 312B questa decisione non è stata ancora ventilata. Così la nuova macchina è progettata tenendo conto anche della possibile applicazione di questo tipo di trasmissione. Nuovo telaio, nuovo motore, possibilità di applicazione della trazione integrale: con tante novità c’è bisogno di un intenso lavoro di svezzamento e di messa a punto, ma si vede subito che la competitività c’è. Oltretutto il nuovo 12 cilindri eroga fin dai primi collaudi 450 CV a 12.500 giri contro i circa 420 a 11.000 del precedente, e questo collocava la 312B un gradino sopra i migliori Ford. Fatta la macchina, c’è da fare la squadra. Chris Amon, stanco della Ferrari, cede alle lusinghe della neonata scuderia March; Pedro Rodriguez, ingaggiato nell’ultima parte della stagione 1969, firma per la BRM e così dalla Brabham torna Jacky Ickx.