Guardando la Cobra del nostro servizio sembra impossibile che abbia oltre cinquant’anni e non perché ne dimostri meno bensì perché… fortunatamente ne dimostra dieci di più. Il motivo è banalissimo: deriva dalla AC (Auto Carriers) Ace, la roadster presentata al Salone di Londra del 1953 sotto forma di una Tojeiro Bristol riverniciata in color crema e vestita in modo meno corsaiolo. Più o meno si tratta di una vettura come quella di cui abbiamo parlato nel n. 34 di Automobilismo d’Epoca sulla quale, al posto del motore Bristol, vi è quello fatto in Casa: un onesto e piacevole due litri sei cilindri in linea da 100 CV a 4.500 giri che, nonostante le scarse doti di allungo, consente prestazioni brillanti a questa leggera barchetta: la definiamo così per la somiglianza (neanche tanto vaga) con le Ferrari carrozzate dalla Touring in quel periodo che portarono, con il contributo di un giovane Giovanni Agnelli, al conio di questa definizione.
Ma c’era in questo progetto qualcosa di soprannaturale, che richiamava sempre maggiore potenza; di altro non può trattarsi perché, anche se è vero che la partecipazione alle gare comincia subito, è anche vero che la storia è piena di auto che hanno debuttato in modo simile ma non hanno poi lasciato traccia di sé. Neppure caratteristiche di particolare avanguardia possono essere messe all’attivo di quest’auto del ‘53, che rispecchia in pieno la tecnologia dei suoi anni: il telaio è fatto di due lunghi tubi longitudinali a sezione rotonda con relative traverse, con una struttura di rinforzo in tubi più sottili e che sostiene anche la carrozzeria. I freni sono a tamburo, lo sterzo a vite e rullo, mentre le sospensioni sono l’unica componente che presenta qualche afflato di modernità: indipendenti su entrambi gli assi, con molle a balestra trasversale.
VISCERALE
Spiegato perché la Cobra sembra un’auto degli anni ‘50, diamo adesso ragione di quel “fortunatamente” che abbiamo speso all’inizio per sottolineare questa sua caratteristica; sappiamo che ci capiremo subito: telaio “ballerino”, pneumatici da 185 mm di sezione, tanti CV a ogni regime, peso piuma (3,4 kg/CV è il rapporto peso/potenza): come pensate che si guidi un’auto così!? All’impazzata, ovviamente! Anche se lo stesso cocktail che abbiamo appena descritto le consente di partire in quarta marcia e di procedere poi borbottando guardando il panorama sulle strade della Costiera Amalfitana, l’istinto (quello che conta per noi che abbiamo benzina nelle vene) è quello di schiacciare a tavoletta l’acceleratore per godersi la guida viscerale che quest’auto è felice di concedervi e per dimostrare a se stessi di saper dominare le “scostumatezze” di una scavezzacollo che cerca di mettervi in difficoltà con allarmante frequenza.
Cosa che non le riesce con il proprietario di questo esemplare, guidatore di alta scuola che, con le sue prodezze al volante, ha reso la sessione fotografica in movimento una tra le più appassionanti cui ci è capitato di assistere. Abbiamo anche compreso il motivo del nome Cobra: l’auto ha la stessa capacità fulminea di proiettarsi in avanti (0-100 in 5 secondi circa) e la stessa tendenza a contorcersi, pur essendo decisamente più attraente, di quel nerastro serpente. Ma presi dalla foga ci accorgiamo di avere interrotto la narrazione della storia che ha portato la bonaria AC Ace a trasfigurarsi in una Cobra; rimediamo subito.
Dicevamo della inesorabile tendenza all’aumento di potenza; il primo passo è del 1956 quando la AC, ripescando ispirazioni dalla progenitrice Tojeiro, affianca alla conosciuta Ace un’ altra versione motorizzata con il due litri Bristol, sempre a sei cilindri in linea: il prezzo aumenta del 20%, così come la potenza che raggiunge i 120 CV, espressi però al molto più elevato regime di 5.750 giri (già da questo dato è evidente la destinazione a un pubblico molto più sportivo).
Nel 1961, tuttavia, il motore Bristol appare insufficiente a soddisfare le crescenti esigenze della clientela sotto il profilo prestazionale; è così che Tony Rudd, abile preparatore del Sussex da tempo coinvolto nell’attività sportiva della Ace, propone l’adozione del sei cilindri 2,6 litri della Ford Zephir, da lui preparato fino a raggiungere i 170 CV. In tal modo si può coniugare il desiderato salto di categoria con l’economia, visto che questo motore Ford può essere acquistato a condizioni vantaggiose; c’è anche un altro risvolto positivo portato dalla sua adozione e che risulta fondamentale per la linea della Cobra così come la conosciamo: il minore sviluppo in altezza che consente di abbassare la linea del cofano e di rimodellare tutta la parte frontale migliorandone contemporaneamente l’aspetto e la penetrazione aerodinamica.
La Ace RS 2.6 (RS sta per Rudd Speed) è già una “bestia” di tutto rispetto, con oltre 200 km/h di velocità massima e 8 secondi circa nello 0-100 ma, purtroppo, da quel momento la AC, essendo impegnata anche in molte altre attività industriali, si disinteressa delle proprie auto determinandone la fine della produzione dopo che soli 37 esemplari di questa razza avevano visto la luce. Ma non c’è da rattristarsi oltre misura perché è già il momento della Cobra. Il “dominus” di questa operazione è, come tutti sanno, il recentemente scomparso Carroll Shelby: indiscutibilmente uno dei maggiori protagonisti della storia dell’automobile; ma perché, per la propria creatura, sceglie di partire proprio dalla AC Ace? Questo è meno noto.
PILOTA
Prima che il suo fragile cuore glielo impedisse, Carroll era stato pilota di valore tanto da vincere nel 1959 la 24 Ore di Le Mans, in coppia con Roy Salvadori, quale pilota ufficiale Aston Martin; pur nella gioia del trionfo, a Shelby non passa inosservata la prodezza di una piccola Ace verde di seconda mano, vecchia di tre anni, cui il suo infaticabile motorino Bristol ed il suo coerente telaio consentono di raggiungere la pista dall’Inghilterra, concludere la corsa al settimo posto assoluto e primo della classe due litri e poi di tornare tranquillamente a casa. E’ comprensibile, quindi, che da quel momento sia solo a lei che pensa quando decide di dare vita a quel magnifico ibrido che ha in mente: leggero ed efficiente telaio europeo abbinato a possente motore americano.
Tutto converge nel migliore dei modi: nel 1960 nasce alla Ford un nuovo motore V8, il primo al mondo con monoblocco in ghisa a pareti sottili; compatto e leggero, è progettato dallo staff capitanato da Dave Evans per essere facilmente sviluppabile, come da capitolato Ford; la cubatura iniziale è di 221 pollici cubi (3,6 litri). Shelby capisce che è giunta l’ora di rompere gli indugi e si mette in contatto con i fratelli Hurlock, i proprietari della AC, illustrando la sua idea che a loro, in quel momento difficile per il settore dell’auto, dev’essere apparsa come una mano santa; fatto sta che, e siamo ormai nell’Ottobre del 1961, l’accordo è raggiunto per un primo lotto di cento automobili, poi si vedrà.
CSX 2000
A regime, esso prevede che le vetture siano preparate presso la AC a Thames Ditton nel Surrey e spedite negli USA senza motore né cambio; condizione irrinunciabile è che, una volta giunte presso le officine degli assemblatori americani (Dean Moon a Santa Fe Spring in California, oppure la European Cars di Pittsburgh in Pennsylvania se destinata ai clienti della costa Est), la meccanica vada al suo posto in un tempo massimo di otto ore, compreso il montaggio di tutte le altre componenti accessorie. Il personale avrà così tempo e agio di collaudare ogni esemplare su strada e di allestirlo secondo i desideri del cliente. Sul lato europeo dell’Atlantico, la questione è gestita in prima per-