Mezzo secolo fa, nell’estate del 1972, una serie di gravissimi incidenti cambiarono completamente il volto delle corse in salita italiane. Nel giro di pochi mesi uscirono di scena tre fra i più celebrati protagonisti delle cronoscalate: Edoardo Lualdi Gabardi (Castell’Arquato-Vernasca, domenica 14 maggio 1972), Carlo Benelli, detto “Riccardone”, (Castione Baratti-Neviano, vicino a Parma, sabato 20 maggio 1972), Giacomo Moioli detto “Noris” (Malegno-Borno, in Val Camonica, vicino a Brescia, sabato 26 agosto 1972). “Riccardone” e “Noris” morirono.
Lualdi sopravvisse ma si ritirò per sempre. E il 1972 passò alla storia come “annus terribilis”. In un’Italia che ancora viaggiava poco, le corse in salita portavano i campioni davanti alla porta di casa. Ce n’erano ovunque. Erano prove di velocità concentrate, dove bisognava intuire le caratteristiche del percorso, interpretare le curve, sempre una diversa dall’altra, insomma “capire” la macchina che correva sotto, indovinando il punto di non ritorno, il cosiddetto “limite” che ogni corridore cerca disperatamente e che rappresenta il presupposto indispensabile della vittoria. In un circuito, il limite va ricercato in sette, otto curve.
Nelle gare su strada, quel confine era celato in ogni anfratto e la perfezione diventava secondaria a favore di un rapporto quasi fisico e intuitivo con le curve, i dossi, l’umidità, le cunette, gli avvallamenti, il brecciolino. I protagonisti più noti erano piloti privati che non potevano o non volevano dedicarsi interamente all’agonismo. Ma sapendo di avere buone qualità, cercavano un’auto adeguata per esprimerle. Più che un guidare, era un sentire. Perché veloci potevano essere in molti, sensibili solo pochi.
Per giunta non c’erano cinture di sicurezza, i serbatoi erano bombe innescate, i parabrezza affilati come ghigliottine e le strade non avevano l’asfalto “vellutato” dei moderni circuiti. Se poi l’auto sfuggiva al controllo e si ribaltava - come capitò a più di qualcuno - la partita era chiusa nell’ottanta per cento dei casi perché non c’erano roll-bar, non c’erano gabbie di sopravvivenza e i caschi non potevano contare su materiali molto resistenti. Dunque chi vinceva non tornava a casa solo con una coppa, ma con la consapevolezza di aver salvato la pelle.
E questo accresceva il fascino della sfida. Un po’ come per gli scalatori di sesto grado artificiale che dicono di sfidare la montagna, ma in fondo sfidano solo loro stessi. Erano, quei piloti, una ristretta schiera di eletti, capaci di capire i segreti del percorso, fiutare le insidie, scegliere la marcia giusta, dosare la potenza e padroneggiare cambio e volante sempre al limite, con l’accortezza del chirurgo e al tempo stesso la determinazione del pugile.
Un po’ stilisti e un po’ indovini, cercando sempre di prevedere ciò che la curva successiva avrebbe loro riservato. Pena la morte. Questo era il patto tacito fra uomo e macchina all’epoca di Lualdi, “Riccardone” e “Noris”.
MEMORIA DI FERRO
Il primo a pagare il prezzo della passione fu Edoardo Lualdi Gabardi, nato a Milano il 13 maggio 1931. L’arma vincente di Edoardo era la memoria. Non aveva avuto un’infanzia tenera. “Mia madre - raccontò - è morta in un incidente stradale quando avevo cinque anni. Mio padre tre anni dopo. Così sono diventato un po’ fatalista. C’erano i nonni, è vero. E a loro raccontavo che, siccome la Ferrari era una macchina speciale, non c’era pericolo”.
Aveva, Lualdi, una capacità straordinaria di memorizzare curve, dossi, strettoie e pendenze dopo un solo giro di prova. La vera difficoltà delle competizioni in salita era infatti la continua variabilità del tracciato. In pista è diverso. Uno gira, registra, impara. In salita per imparare tutti i tracciati del campionato, non sarebbe bastato l’atlante De Agostini. In un’epoca che ancora non conosceva navigatore e tom-tom, cunette, salite, discese, contropendenze, bivi, roccia, muro, palo, traliccio, casa erano ingredienti temibili.
Era considerato il pilota di punta delle salite italiane e aveva meritato la fiducia di Enzo Ferrari che al gentleman driver lombardo riservava un occhio di riguardo. Non solo perché un buon cliente. Ma per le vittorie a raffica che le riviste raccontavano dopo ogni domenica, aumentando così la notorietà del Cavallino.
C’è da dire che negli 50 e 60 le cronache della gare in salita sui settimanali specializzati non si limitavano al trafiletto. Per una gara nazionale le pagine erano mediamente quattro o cinque, le foto almeno una dozzina. Ferrari, avido lettore e giornalista mancato, aveva capito che quei reportages erano pubblicità preziosa, a buon mercato, e che quei gentlemen driver erano ottimi veicoli promozionali.
A patto che vincessero, naturalmente. “La domanda di vetture vincenti era così elevata che il Commendatore era sempre nella condizione di poter scegliere i migliori - spiegava Lualdi - perché sapeva benissimo che solo con loro aveva più possibilità di fare bella figura”. Per chi restava fuori, l’onta dell’esclusione, le ironìe degli avversari, la difficoltà di emergere. Lualdi aveva capito. E a fine stagione diventava un appello prezioso per chi era rimasto a bocca asciutta. I clienti facoltosi non mancavano.
CARRIERA BRUCIATA
Per ironia della sorte, quasi una nemesi, il giorno dell’incidente Lualdi non correva su una Ferrari, della quale si era un po’ stancato dopo la brutta esperienza al volante della 212E. Si era iscritto alla Castell’Arquanto-Vernasca su una Osella “ma non dovevo partire”, ricorda lui stesso, “perché l’auto non era a posto, il cambio non funzionava bene, se mettevo la quarta entrava la seconda”. Osella in persona lo aveva sconsigliato di prendere il via. Ma lui, carattere testardo, aveva confidato sull’eccezionale memoria. Arrivò ad una curva sui 220 km/h. Pioveva. E si dimenticò del difetto del cambio e del fatto che doveva fare quinta-terza perché se faceva quinta-quarta entrava la seconda. Capitò proprio quello.
“La macchina - racconta Lualdi - frenò troppo e all’improvviso scaricando sulle gomme tutta la forza del freno motore di una scalata rabbiosa come la quinta-seconda, per giunta l’asfalto era bagnato, sbandai e finii contro un palo di cemento”. Di muso. C’è da dire che 50 anni fa sotto il muso c’erano la pedaliera e le gambe del pilota. Protezioni zero. “Così mi schiantai e mi fermai con le gambe che assorbirono tutta la violenza dell’impatto”. Subì fratture esposte a tibie, peroni, femore, caviglie, oltre alla spalla destra. Il pilota di Varese si ritirò dalle competizioni e dovette subire una lunghissima riabilitazione agli arti inferiori, che comunque gli lasciò pesanti postumi.
CHIODI ASSASSINI
Il secondo grave incidente capitò dopo nemmeno una settimana, sabato 20 maggio, poco prima delle ore 16, alla Castione Baratti-Neviano Arduini, vicino Parma. “‘Riccardone”, pilota toscano (fratello di Roberto Benelli, fino a pochi anni fa dominatore delle corse storiche su Osella PA9) si schiantò contro un muro. Sul percorso gli organizzatori trovarono molti chiodi.
E la gara venne sospesa con un comunicato ufficiale dell’Automobile Club Parma che motivava la grave decisione “a salvaguardia dell’incolumità dei piloti in quanto ignoti criminali hanno cosparso il percorso di un’infinità di chiodi con l’evidente scopo di sabotare la manifestazione”. Non fu mai del tutto chiaro se l’incidente mortale di Benelli fosse riconducibile allo scoppio della gomma o ad altro.
Anche perché le perizie furono molto laboriose e difficili in quanto della potente Sport di tre litri restò assai poco. Dopo aver superato con la sua Alfa blu i tornanti che salivano a Provazzano, “Riccardone” stava per affrontare una chicane e poi un breve rettilineo. Ma proprio nel mezzo del paese, lungo una curva a medio raggio che piegava a destra, la sua auto usciva dal tracciato a sinistra. A nulla serviva la scalata rabbiosa del fiorentino, nel tentativo di controllare quella traiettoria sbagliata. La 33 si schiantava contro un muro di cemento armato e si spezzava in due tronconi, incendiandosi.
Solo 8 secondi dopo la Maserati del servizio anti-incendio scaricava su entrambe le parti della vettura il liquido estinguente, ma per il pilota non c’era più nulla da fare. “Riccardone” era nato a Prato nel 1942 e aveva iniziato a correre a 18 anni, nel 1960, sui kart, insieme all’amico Nanni Galli, al quale era molto legato. Corse poi su Abarth 1000, Alfa SZ, Ferrari GTB, Mercedes. La Mercedes era un’auto da passeggio, come la chiamava lui, modello 250 SL, regalatagli dal padre, con la promessa di piantarla con le corse. Lui accettò. Per poco.
E si iscrisse al Mugello 1965 con la vettura tedesca. Ma il grande pubblico iniziò a conoscerlo al volante della sua GTA blu e oro che nella seconda metà degli anni Sessanta, sulle salite italiane, riusciva spesso a impensierire con tempi da primato la squadra ufficiale dell’Alfa Romeo. Esperienza preziosa, che gli permise di conquistare il Trofeo della Montagna del 1970 nella categoria Sport Prototipi al volante di un’Abarth 2000. Benelli voleva però chiudere la carriera con una vittoria sull’Alfa 33, che aveva rilevato dall’Autodelta all’inizio del 1971.
Non ebbe il tempo di concretizzare quel suo progetto.
L’ULTIMA SFIDA
Alla fine di agosto fu la volta di “Noris”, pseudonimo di Giacomo Moioli. “Noris” nato nel 23 luglio 1922 ad Albino Val Seriana e si era poi trasferito con la famiglia a Darfo. Rappresentante di autocarri, si era sposato nel 1944 con Elide e nel dopoguerra si era trasferito a Verona. “Noris” era lo pseudonimo scelto in onore del suocero Noris Pimazzoni caduto durante il conflitto.
Per “Noris” l’incidente fatale capitò un brutto sabato 26 agosto 1972, durante le prove ufficiali della Malegno-Borno, in Val Camonica, vicino Brescia. “Papà sentiva in modo particolare quella corsa perché era in una località familiare, che lo avevano visto bambino”, racconta la figlia Luisella; “così decise di farsi accompagnare anche da mia madre, voleva rivedere con lei i luoghi dove era cresciuto”. Le prove del sabato prevedevano la possibilità di salire due volte. Ma “Noris” non utilizzava quasi mai quella seconda chance. I più esperti ritenevano la seconda salita di prova un inutile rischio, uno sforzo per l’auto che avrebbe potuto compromettere la corsa di domenica.
Così fece una prima salita e, dopo aver visto il tempo, si sfilò guanti e casco. Poteva bastare. Poi ci ripensò, si avvicinò alla moglie e disse “Elide, devo verificare una cosa, forse guidando in modo diverso riesco a limare qualche cosa sul tempo, ma devo provare, aspettami, arrivo fra poco, è questione di minuti…”. Non era nel suo stile. Ma ora voleva provare, verificare, controllare. L’incidente capitò proprio in quella seconda salita. Per cause imprecisate, dissero le cronache dell’epoca.
Fatto sta che a circa metà percorso, in pieno rettilineo, ad oltre 200 km/h, la Porsche 908 di “Noris” colpì una protezione posta sul margine destro della carreggiata, sbandò e poi rimbalzò sul lato opposto della strada, precipitando nella scarpata. Vennero rilevati anche diversi segni neri sull’asfalto, tracce evidenti di ripetuti colpi di freno nella vana impresa di arrestare la corsa impazzita della Porsche, sulla quale venne trovato un giunto tranciato. Fu quella la causa dell’uscita di strada? Molti annuirono, ma nessuna certezza emerse nei giorni e nelle settimane successive. “Perché all’epoca - dichiarò Giampiero Biscaldi, molto legato a “Noris” - quando succedevano questi gravi incidenti le inchieste venivano avviate solo se a rimetterci la pelle era uno spettatore: la morte del pilota era parte del programma”. Giacomo Moioli morì all’ospedale di Breno.