10 July 2006

Lamborghini Urraco P250

Lamborghini Urraco

Introduzione


Urraco è il nome di una razza di tori da combattimento, di piccola stazza ma agguerriti: proprio il nome giusto che l’ingegnere honoris causa Ferruccio Lamborghini, nel rispetto di una prassi iniziata con il lancio della Miura e ormai consolidata per l’ancor giovane Casa di S. Agata Bolognese, voleva per sottolineare il carattere di questa splendida vettura, frutto della matita di Marcello Gandini, allora responsabile del design della carrozzeria Bertone.Per capire meglio la personalità e le caratteristiche di questa Gt occorre però fare un passo indietro, fino alla fine degli anni 60, quando gli appassionati di supercar con prestazioni da primato guardavano con crescente interesse a quanto accadeva a S. Agata Bolognese, la cittadina che stava mettendo in ombra persino un nome illustre come Maranello.


Con l’avvento della Miura, il punto di riferimento del settore si stava effettivamente spostando dall’emblema del Cavallino rampante verso quello del Toro che carica, sempre più sinonimo di velocità, potenza e tecnologia all’avanguardia, rese percepibili anche visivamente da un design semplicemente avveniristico. Sull’onda del successo, Ferruccio Lamborghini aveva quindi pensato di dare vita a una sportiva di cilindrata e prezzo più contenuti, da inserire in quella fascia di mercato che era terreno di caccia della Porsche 911 e nel quale trovava però collocazione (e acquirenti) anche un’auto dal nome importante come la Dino 246 GT.

Si trattava, in concreto, di costruire una sportiva con cilindrata di due litri e mezzo, dalle dimensioni compatte ma con un abitacolo in grado di ospitare quattro persone. In questo modo la nuova “piccola” Lamborghini (la futura Urraco, appunto) avrebbe coniugato il vantaggio dell’abitabilità della 911 con l’aggressività e la sportività della Dino di Maranello, che era una due posti secchi a motore centrale. Sarebbe stata, inoltre, la prima sportiva in assoluto ad abbinare al motore centrale (nella Porsche 911 il propulsore è a sbalzo dietro l’asse posteriore) a un abitacolo a quattro posti.

Urraco è il nome di una razza di tori da combattimento, di piccola stazza ma agguerriti: proprio il nome giusto che l’ingegnere honoris causa Ferruccio Lamborghini, nel rispetto di una prassi iniziata con il lancio della Miura e ormai consolidata per l’ancor giovane Casa di S. Agata Bolognese, voleva per sottolineare il carattere di questa splendida vettura, frutto della matita di Marcello Gandini, allora responsabile del design della carrozzeria Bertone.Per capire meglio la personalità e le caratteristiche di questa Gt occorre però fare un passo indietro, fino alla fine degli anni 60, quando gli appassionati di supercar con prestazioni da primato guardavano con crescente interesse a quanto accadeva a S. Agata Bolognese, la cittadina che stava mettendo in ombra persino un nome illustre come Maranello.


Con l’avvento della Miura, il punto di riferimento del settore si stava effettivamente spostando dall’emblema del Cavallino rampante verso quello del Toro che carica, sempre più sinonimo di velocità, potenza e tecnologia all’avanguardia, rese percepibili anche visivamente da un design semplicemente avveniristico. Sull’onda del successo, Ferruccio Lamborghini aveva quindi pensato di dare vita a una sportiva di cilindrata e prezzo più contenuti, da inserire in quella fascia di mercato che era terreno di caccia della Porsche 911 e nel quale trovava però collocazione (e acquirenti) anche un’auto dal nome importante come la Dino 246 GT.

Si trattava, in concreto, di costruire una sportiva con cilindrata di due litri e mezzo, dalle dimensioni compatte ma con un abitacolo in grado di ospitare quattro persone. In questo modo la nuova “piccola” Lamborghini (la futura Urraco, appunto) avrebbe coniugato il vantaggio dell’abitabilità della 911 con l’aggressività e la sportività della Dino di Maranello, che era una due posti secchi a motore centrale. Sarebbe stata, inoltre, la prima sportiva in assoluto ad abbinare al motore centrale (nella Porsche 911 il propulsore è a sbalzo dietro l’asse posteriore) a un abitacolo a quattro posti.

Il debutto


Una volta di più, alla Lamborghini sarebbe toccato il ruolo di apripista. Dato per scontato che la meccanica sarebbe stata di prim’ordine, la riuscita del nuovo modello sarebbe dipesa in larga misura dalla personalità della linea, che doveva coniugare tre aspetti apparentemente inconciliabili: sportività senza alcun compromesso, abitabilità e fascino. Lo stesso fascino che Bertone aveva saputo dare alla Miura, alla Espada e alla Jarama, macchine che una volta parcheggiate erano puntualmente attorniate dalla gente che rimaneva affascinata dalla bellezza e dal senso di profonda dinamicità espresso dalle loro linee.


La presentazione del nuovo modello avvenne al Salone di Torino del 1970, dove la vettura lasciò senza fiato i visitatori che poterono ammirarne le forme affusolate, messe ancor più in evidenza da una bellissima livrea rosso-arancio con interni di ugual colore e beige. Si chiamava P250, una sigla in cui la P stava per motore posteriore e 250 indicava la cilindrata di 2500 cc: una denominazione provvisoria, perché il nome Urraco sarebbe venuto in un secondo momento.


In questo primo esemplare la strumentazione era raccolta in un unico blocco al centro della plancia, una scelta che fu ben presto abbandonata a causa delle difficoltà di lettura: era stata pensata per poter facilmente adattare la guida a sinistra o a destra, a seconda del Paese d’esportazione. Gli ordini cominciarono subito a fioccare. Da quel giorno sarebbe però stato necessario attendere ancora un anno e mezzo per vedere le prime Urraco in mano ai clienti: un ritardo notevole, dovuto a molteplici cause.

Una volta di più, alla Lamborghini sarebbe toccato il ruolo di apripista. Dato per scontato che la meccanica sarebbe stata di prim’ordine, la riuscita del nuovo modello sarebbe dipesa in larga misura dalla personalità della linea, che doveva coniugare tre aspetti apparentemente inconciliabili: sportività senza alcun compromesso, abitabilità e fascino. Lo stesso fascino che Bertone aveva saputo dare alla Miura, alla Espada e alla Jarama, macchine che una volta parcheggiate erano puntualmente attorniate dalla gente che rimaneva affascinata dalla bellezza e dal senso di profonda dinamicità espresso dalle loro linee.


La presentazione del nuovo modello avvenne al Salone di Torino del 1970, dove la vettura lasciò senza fiato i visitatori che poterono ammirarne le forme affusolate, messe ancor più in evidenza da una bellissima livrea rosso-arancio con interni di ugual colore e beige. Si chiamava P250, una sigla in cui la P stava per motore posteriore e 250 indicava la cilindrata di 2500 cc: una denominazione provvisoria, perché il nome Urraco sarebbe venuto in un secondo momento.


In questo primo esemplare la strumentazione era raccolta in un unico blocco al centro della plancia, una scelta che fu ben presto abbandonata a causa delle difficoltà di lettura: era stata pensata per poter facilmente adattare la guida a sinistra o a destra, a seconda del Paese d’esportazione. Gli ordini cominciarono subito a fioccare. Da quel giorno sarebbe però stato necessario attendere ancora un anno e mezzo per vedere le prime Urraco in mano ai clienti: un ritardo notevole, dovuto a molteplici cause.

Le difficoltà



Prima di tutte, il periodo di difficoltà che la fabbrica stava attraversando. Non la Lamborghini Automobili, in realtà: l’azienda, anzi, vendeva bene e guadagnava. I problemi venivano dalla Lamborghini Trattori, a causa di un’ordinazione di una partita di 5.000 mezzi giunta dal governo boliviano e che, caduto improvvisamente il governo stesso, non era più stata confermata da quello successivo. Ferruccio Lamborghini, che i trattori li aveva già costruiti, si trovò così in difficoltà e agì d’impulso, licenziando in tronco il direttore commerciale. Le banche, allarmate, pretesero allora un rientro immediato dei capitali fino ad allora anticipati. Ma la Lamborghini Trattori era un’azienda individuale: se fosse fallita, avrebbe trascinato nel fallimento Ferruccio Lamborghini in persona.




< em>Occorreva quindi liquidità, che poteva essere trovata solo cedendo una quota della fabbrica di automobili che era invece una società per azioni. Il denaro necessario a risolvere la crisi della Lamborghini Trattori fu messo a disposizione da Georges Rossetti, un sub agente elvetico della Casa, che pretese però il 51% del pacchetto azionario della Lamborghini Automobili mettendo così in minoranza proprio il fondatore della fabbrica.



C’erano poi gli inevitabili problemi legati alla messa a punto della vettura, la cui soluzione richiedeva tempo e lavoro. A tutto questo si aggiungevano i ritardi dovuti agli scioperi, particolarmente numerosi in quel periodo denso di contestazioni dentro e fuori le fabbriche di tutta l’Italia: pioveva sul bagnato. Nel frattempo non tutti i clienti attendevano: alcuni, stanchi di aspettare, annullavano l’ordine d’acquisto.

Insomm a, prima di vedere in circolazione un numero significativo di Urraco sarebbe stato necessario attendere il 1973
. A questo punto, però, le cose subirono una svolta non prevedibile, sotto forma della crisi energetica dell’ottobre di quell’anno, un fatto che sconvolse tutto il mondo dell’automobile mettendo in discussione per prime proprio le vetture sportive. Come se non bastasse, fu per di più introdotta dal governo italiano la cosiddetta Iva pesante (al 38 per cento) per le automobili di cilindrata superiore ai 2.000 cc, che in questo modo videro dall’oggi al domani passare alle stelle il proprio prezzo d’acquisto in un periodo, oltretutto, sfavorevole a causa dell’elevata inflazione monetaria innescata dalla crisi energetica (un’inflazione che all’epoca galoppava con percentuali annue a due cifre).


Prima di tutte, il periodo di difficoltà che la fabbrica stava attraversando. Non la Lamborghini Automobili, in realtà: l’azienda, anzi, vendeva bene e guadagnava. I problemi venivano dalla Lamborghini Trattori, a causa di un’ordinazione di una partita di 5.000 mezzi giunta dal governo boliviano e che, caduto improvvisamente il governo stesso, non era più stata confermata da quello successivo. Ferruccio Lamborghini, che i trattori li aveva già costruiti, si trovò così in difficoltà e agì d’impulso, licenziando in tronco il direttore commerciale. Le banche, allarmate, pretesero allora un rientro immediato dei capitali fino ad allora anticipati.
Ma la Lamborghini Trattori era un’azienda individuale: se fosse fallita, avrebbe trascinato nel fallimento Ferruccio Lamborghini in persona.




< em>Occorreva quindi liquidità, che poteva essere trovata solo cedendo una quota della fabbrica di automobili che era invece una società per azioni. Il denaro necessario a risolvere la crisi della Lamborghini Trattori fu messo a disposizione da Georges Rossetti, un sub agente elvetico della Casa, che pretese però il 51% del pacchetto azionario della Lamborghini Automobili mettendo così in minoranza proprio il fondatore della fabbrica.



C’erano poi gli inevitabili problemi legati alla messa a punto della vettura, la cui soluzione richiedeva tempo e lavoro. A tutto questo si aggiungevano i ritardi dovuti agli scioperi, particolarmente numerosi in quel periodo denso di contestazioni dentro e fuori le fabbriche di tutta l’Italia: pioveva sul bagnato. Nel frattempo non tutti i clienti attendevano: alcuni, stanchi di aspettare, annullavano l’ordine d’acquisto.

Insomm a, prima di vedere in circolazione un numero significativo di Urraco sarebbe stato necessario attendere il 1973
. A questo punto, però, le cose subirono una svolta non prevedibile, sotto forma della crisi energetica dell’ottobre di quell’anno, un fatto che sconvolse tutto il mondo dell’automobile mettendo in discussione per prime proprio le vetture sportive. Come se non bastasse, fu per di più introdotta dal governo italiano la cosiddetta Iva pesante (al 38 per cento) per le automobili di cilindrata superiore ai 2.000 cc, che in questo modo videro dall’oggi al domani passare alle stelle il proprio prezzo d’acquisto in un periodo, oltretutto, sfavorevole a causa dell’elevata inflazione monetaria innescata dalla crisi energetica (un’inflazione che all’epoca galoppava con percentuali annue a due cifre).

La P300 e la P200



L a risposta della Casa fu un capolavoro di strategia. Dato che la Urraco piaceva anche perché era davvero divertente da guidare, fu rapidamente messo in cantiere un motore da tre litri per meglio riqualificare la vettura in termini di prestazioni pure. Contemporaneamente, però, era indispensabile guardare anche dal lato opposto, verso una cilindrata che avrebbe consentito di mettere a disposizione dei clienti un modello di prestigio come la Urraco a un prezzo significativamente ridotto grazie a una tassazione più leggera: cioè un motore appena sotto la soglia dei due litri. La mossa non era sbagliata: il modello da tre litri, siglato P300, veniva ad essere una sorta di piccola Miura che si opponeva principalmente alla nuova entrata nel settore, la Dino 308 Gt4 che, come la Urraco, aveva motore centrale e abitacolo a 2+2 posti. La P200 avrebbe dovuto attirare invece nuovi clienti che non avevano la disponibilità economica per entrare in possesso di una P300.
L e cose andarono nel verso previsto per quanto riguarda la P300, che apparve sul mercato nel 1975 e che riscosse un buon successo relativamente a quegli anni di crisi, anche se gli esemplari venduti furono in assoluto troppo pochi per garantire alla Casa un adeguato ritorno finanziario
. Decisamente male andò invece alla P200, anch’essa presentata nel corso del medesimo anno e il cui motore fu derivato dal monoalbero della P250. Fu costruita in soli 66 esemplari (tutti con guida a sinistra) nel biennio che va dal 1975 al 1977, un numero eccessivamente esiguo che non ne premia le qualità (che invece c’erano), a conferma del fatto che il cliente di vetture di questo tipo non guarda più di tanto al prezzo di listino.

Ce rto le difficoltà sarebbero state minori se la Urraco si fosse potuta vendere bene anche negli Stati Uniti. La versione ideale era la P300, ma persistevano oggettive difficoltà nel far rientrare il V8 entro gli stretti limiti delle norme americane antipollution. Metterlo a norma avrebbe richiesto interventi che furono giudicati eccessivamente onerosi, ragione per cui si preferì esportare la P250 a cui fu dato il nome di Urraco 111. La versione a stelle e strisce fu preparata alla fine del 1974, ma il suo motore, dopo la cura antinquinamento, si ritrovò con soli 180 Cv dagli iniziali 220, e per di più gravato da un peso della vettura superiore di 40 kg a causa dell’installazione di quanto occorreva per ottemperare alle norme là vigenti. Troppo pochi per avere successo in un Paese per il quale il nome Lamborghini era soprattutto sinonimo di potenza e di prestazioni all’avanguardia.


A questo punto le versioni della Lamborghini Urraco, sul mercato italiano, erano tre: P200, P250 e P300, e tali rimasero anche nel 1976. L’anno successivo la sola P300 sopravvisse e continuò la sua avventura, con allestimento esterno reso uguale alla versione USA (luci laterali a parte) fino al 1979, l’anno della seconda crisi energetica, al termine del quale all’avventura della Urraco fu posta la parola fine.


L a risposta della Casa fu un capolavoro di strategia. Dato che la Urraco piaceva anche perché era davvero divertente da guidare, fu rapidamente messo in cantiere un motore da tre litri per meglio riqualificare la vettura in termini di prestazioni pure. Contemporaneamente, però, era indispensabile guardare anche dal lato opposto, verso una cilindrata che avrebbe consentito di mettere a disposizione dei clienti un modello di prestigio come la Urraco a un prezzo significativamente ridotto grazie a una tassazione più leggera: cioè un motore appena sotto la soglia dei due litri. La mossa non era sbagliata: il modello da tre litri, siglato P300, veniva ad essere una sorta di piccola Miura che si opponeva principalmente alla nuova entrata nel settore, la Dino 308 Gt4 che, come la Urraco, aveva motore centrale e abitacolo a 2+2 posti. La P200 avrebbe dovuto attirare invece nuovi clienti che non avevano la disponibilità economica per entrare in possesso di una P300.
L e cose andarono nel verso previsto per quanto riguarda la P300, che apparve sul mercato nel 1975 e che riscosse un buon successo relativamente a quegli anni di crisi, anche se gli esemplari venduti furono in assoluto troppo pochi per garantire alla Casa un adeguato ritorno finanziario
. Decisamente male andò invece alla P200, anch’essa presentata nel corso del medesimo anno e il cui motore fu derivato dal monoalbero della P250. Fu costruita in soli 66 esemplari (tutti con guida a sinistra) nel biennio che va dal 1975 al 1977, un numero eccessivamente esiguo che non ne premia le qualità (che invece c’erano), a conferma del fatto che il cliente di vetture di questo tipo non guarda più di tanto al prezzo di listino.

Ce rto le difficoltà sarebbero state minori se la Urraco si fosse potuta vendere bene anche negli Stati Uniti. La versione ideale era la P300, ma persistevano oggettive difficoltà nel far rientrare il V8 entro gli stretti limiti delle norme americane antipollution. Metterlo a norma avrebbe richiesto interventi che furono giudicati eccessivamente onerosi, ragione per cui si preferì esportare la P250 a cui fu dato il nome di Urraco 111. La versione a stelle e strisce fu preparata alla fine del 1974, ma il suo motore, dopo la cura antinquinamento, si ritrovò con soli 180 Cv dagli iniziali 220, e per di più gravato da un peso della vettura superiore di 40 kg a causa dell’installazione di quanto occorreva per ottemperare alle norme là vigenti. Troppo pochi per avere successo in un Paese per il quale il nome Lamborghini era soprattutto sinonimo di potenza e di prestazioni all’avanguardia.


A questo punto le versioni della Lamborghini Urraco, sul mercato italiano, erano tre: P200, P250 e P300, e tali rimasero anche nel 1976. L’anno successivo la sola P300 sopravvisse e continuò la sua avventura, con allestimento esterno reso uguale alla versione USA (luci laterali a parte) fino al 1979, l’anno della seconda crisi energetica, al termine del quale all’avventura della Urraco fu posta la parola fine.

Su strada


La Lamborghini Urraco è una macchina che non passa inosservata: oltre a essere indiscutibilmente bella, al solo vederla mette un’irrefrenabile voglia di sedersi al posto di guida. E in più regala un insospettabile grado di comfort. Il grado di finitura è elevato: i soli appunti riguardano la plancia portastrumenti, di difficile lettura, e la posizione di guida disassata. La Urraco non è un’auto “nervosa”, ma si mantiene neutra con un lieve accenno di sottosterzo all’ingresso delle curve e un moderato e controllabile sovrasterzo di potenza in uscita: merito anche del lavoro di messa a punto svolto dai due collaudatori della Casa, l’americano Bob Wallace e Valentino Balboni.

Al resto del godimento pensano i generosi motori V8 da 2.463 e 2.996 cc di cilindrata, con potenze allora ai vertici delle rispettive categorie: 220 Cv DIN per il 2,5 litri e 250 per il 3.000, che, su una vettura che in ordine di marcia pesa solo 1.150 kg, si fanno sentire. Ma anche il P200 non scherzava. Era, con i suoi 182 Cv DIN, un motore che ancora oggi sarebbe tra i più potenti due litri aspirati in circolazione. La P300 è in realtà una versione evoluta della P250. Pur condividendone la linea presenta piccole modifiche che furono introdotte sulla scorta dell’esperienza maturata in corso di produzione: qualche rinforzo alla scocca e, naturalmente, le modifiche rese necessarie dall’aumento di potenza, come il disco frizione di maggiore diametro.

La Lamborghini Urraco è una macchina che non passa inosservata: oltre a essere indiscutibilmente bella, al solo vederla mette un’irrefrenabile voglia di sedersi al posto di guida. E in più regala un insospettabile grado di comfort. Il grado di finitura è elevato: i soli appunti riguardano la plancia portastrumenti, di difficile lettura, e la posizione di guida disassata. La Urraco non è un’auto “nervosa”, ma si mantiene neutra con un lieve accenno di sottosterzo all’ingresso delle curve e un moderato e controllabile sovrasterzo di potenza in uscita: merito anche del lavoro di messa a punto svolto dai due collaudatori della Casa, l’americano Bob Wallace e Valentino Balboni.

Al resto del godimento pensano i generosi motori V8 da 2.463 e 2.996 cc di cilindrata, con potenze allora ai vertici delle rispettive categorie: 220 Cv DIN per il 2,5 litri e 250 per il 3.000, che, su una vettura che in ordine di marcia pesa solo 1.150 kg, si fanno sentire. Ma anche il P200 non scherzava. Era, con i suoi 182 Cv DIN, un motore che ancora oggi sarebbe tra i più potenti due litri aspirati in circolazione. La P300 è in realtà una versione evoluta della P250. Pur condividendone la linea presenta piccole modifiche che furono introdotte sulla scorta dell’esperienza maturata in corso di produzione: qualche rinforzo alla scocca e, naturalmente, le modifiche rese necessarie dall’aumento di potenza, come il disco frizione di maggiore diametro.

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