Urraco
è il nome di una razza di tori da
combattimento, di piccola
stazza ma agguerriti: proprio il nome giusto che
l’ingegnere
honoris causa Ferruccio Lamborghini, nel rispetto di
una
prassi iniziata con il lancio della Miura e ormai consolidata per l’ancor
giovane Casa di S. Agata Bolognese, voleva per sottolineare il carattere
di questa splendida vettura, frutto della matita di Marcello
Gandini, allora responsabile del design della carrozzeria Bertone.Per capire
meglio la personalità e le caratteristiche di questa Gt occorre
però fare
un passo indietro, fino alla fine degli anni 60, quando gli appassionati
di supercar con prestazioni da primato guardavano con crescente
interesse
a quanto accadeva a S. Agata Bolognese, la cittadina che stava
mettendo in ombra persino un nome illustre come Maranello.
Con
l’avvento della Miura, il punto di riferimento del settore si stava
effettivamente
spostando dall’emblema del Cavallino rampante verso quello del Toro che
carica, sempre più sinonimo di velocità, potenza e tecnologia
all’avanguardia,
rese percepibili anche visivamente da un design semplicemente avveniristico.
Sull’onda del successo, Ferruccio Lamborghini aveva quindi pensato di
dare vita a una sportiva di cilindrata e prezzo più contenuti, da
inserire
in quella fascia di mercato che era terreno di caccia della Porsche 911
e nel quale trovava però collocazione (e acquirenti) anche un’auto
dal
nome importante come la Dino 246 GT.
Si
trattava, in concreto, di costruire una sportiva con cilindrata di due
litri e mezzo, dalle dimensioni compatte ma con un abitacolo in grado di
ospitare quattro persone. In questo modo la nuova “piccola”
Lamborghini
(la futura Urraco, appunto) avrebbe coniugato il vantaggio
dell’abitabilità
della 911 con l’aggressività e la sportività della Dino di
Maranello,
che era una due posti secchi a motore centrale. Sarebbe stata,
inoltre, la prima sportiva in assoluto ad abbinare al motore centrale (nella
Porsche 911 il propulsore è a sbalzo dietro l’asse posteriore) a
un abitacolo
a quattro posti.
Urraco
è il nome di una razza di tori da
combattimento, di piccola
stazza ma agguerriti: proprio il nome giusto che
l’ingegnere
honoris causa Ferruccio Lamborghini, nel rispetto di
una
prassi iniziata con il lancio della Miura e ormai consolidata per l’ancor
giovane Casa di S. Agata Bolognese, voleva per sottolineare il carattere
di questa splendida vettura, frutto della matita di Marcello
Gandini, allora responsabile del design della carrozzeria Bertone.Per capire
meglio la personalità e le caratteristiche di questa Gt occorre
però fare
un passo indietro, fino alla fine degli anni 60, quando gli appassionati
di supercar con prestazioni da primato guardavano con crescente
interesse
a quanto accadeva a S. Agata Bolognese, la cittadina che stava
mettendo in ombra persino un nome illustre come Maranello.
Con
l’avvento della Miura, il punto di riferimento del settore si stava
effettivamente
spostando dall’emblema del Cavallino rampante verso quello del Toro che
carica, sempre più sinonimo di velocità, potenza e tecnologia
all’avanguardia,
rese percepibili anche visivamente da un design semplicemente avveniristico.
Sull’onda del successo, Ferruccio Lamborghini aveva quindi pensato di
dare vita a una sportiva di cilindrata e prezzo più contenuti, da
inserire
in quella fascia di mercato che era terreno di caccia della Porsche 911
e nel quale trovava però collocazione (e acquirenti) anche un’auto
dal
nome importante come la Dino 246 GT.
Si
trattava, in concreto, di costruire una sportiva con cilindrata di due
litri e mezzo, dalle dimensioni compatte ma con un abitacolo in grado di
ospitare quattro persone. In questo modo la nuova “piccola”
Lamborghini
(la futura Urraco, appunto) avrebbe coniugato il vantaggio
dell’abitabilità
della 911 con l’aggressività e la sportività della Dino di
Maranello,
che era una due posti secchi a motore centrale. Sarebbe stata,
inoltre, la prima sportiva in assoluto ad abbinare al motore centrale (nella
Porsche 911 il propulsore è a sbalzo dietro l’asse posteriore) a
un abitacolo
a quattro posti.
Il debutto
Una
volta di più, alla Lamborghini sarebbe toccato il ruolo di
apripista.
Dato per scontato che la meccanica sarebbe stata di prim’ordine, la
riuscita
del nuovo modello sarebbe dipesa in larga misura dalla personalità della
linea, che doveva coniugare tre aspetti apparentemente inconciliabili:
sportività senza alcun compromesso, abitabilità e
fascino. Lo
stesso fascino che Bertone aveva saputo dare alla Miura, alla Espada e
alla Jarama, macchine che una volta parcheggiate erano puntualmente attorniate
dalla gente che rimaneva affascinata dalla bellezza e dal senso di profonda
dinamicità espresso dalle loro linee.
La
presentazione del nuovo modello avvenne al Salone di Torino del 1970, dove
la vettura lasciò senza fiato i visitatori che poterono ammirarne le
forme
affusolate, messe ancor più in evidenza da una bellissima livrea
rosso-arancio
con interni di ugual colore e beige. Si chiamava
P250,
una sigla in cui la P stava per motore posteriore e 250 indicava la cilindrata
di 2500 cc: una denominazione provvisoria, perché il nome Urraco sarebbe
venuto in un secondo momento.
In questo primo esemplare la strumentazione
era raccolta in un unico blocco al centro della plancia, una scelta che
fu ben presto abbandonata a causa delle difficoltà di lettura: era stata
pensata per poter facilmente adattare la guida a sinistra o a destra, a
seconda del Paese d’esportazione. Gli ordini cominciarono
subito
a fioccare. Da quel giorno sarebbe però stato necessario attendere ancora
un anno e mezzo per vedere le prime Urraco in mano ai clienti: un ritardo
notevole, dovuto a molteplici cause.
Una
volta di più, alla Lamborghini sarebbe toccato il ruolo di
apripista.
Dato per scontato che la meccanica sarebbe stata di prim’ordine, la
riuscita
del nuovo modello sarebbe dipesa in larga misura dalla personalità della
linea, che doveva coniugare tre aspetti apparentemente inconciliabili:
sportività senza alcun compromesso, abitabilità e
fascino. Lo
stesso fascino che Bertone aveva saputo dare alla Miura, alla Espada e
alla Jarama, macchine che una volta parcheggiate erano puntualmente attorniate
dalla gente che rimaneva affascinata dalla bellezza e dal senso di profonda
dinamicità espresso dalle loro linee.
La
presentazione del nuovo modello avvenne al Salone di Torino del 1970, dove
la vettura lasciò senza fiato i visitatori che poterono ammirarne le
forme
affusolate, messe ancor più in evidenza da una bellissima livrea
rosso-arancio
con interni di ugual colore e beige. Si chiamava
P250,
una sigla in cui la P stava per motore posteriore e 250 indicava la cilindrata
di 2500 cc: una denominazione provvisoria, perché il nome Urraco sarebbe
venuto in un secondo momento.
In questo primo esemplare la strumentazione
era raccolta in un unico blocco al centro della plancia, una scelta che
fu ben presto abbandonata a causa delle difficoltà di lettura: era stata
pensata per poter facilmente adattare la guida a sinistra o a destra, a
seconda del Paese d’esportazione. Gli ordini cominciarono
subito
a fioccare. Da quel giorno sarebbe però stato necessario attendere ancora
un anno e mezzo per vedere le prime Urraco in mano ai clienti: un ritardo
notevole, dovuto a molteplici cause.
Le difficoltà
Prima
di tutte, il periodo di difficoltà che la fabbrica stava
attraversando.
Non la Lamborghini Automobili, in realtà: l’azienda, anzi, vendeva
bene
e guadagnava. I problemi venivano dalla Lamborghini
Trattori,
a causa di un’ordinazione di una partita di 5.000 mezzi giunta dal governo
boliviano e che, caduto improvvisamente il governo stesso, non era più
stata confermata da quello successivo. Ferruccio Lamborghini, che i trattori
li aveva già costruiti, si trovò così in difficoltà
e agì d’impulso, licenziando
in tronco il direttore commerciale. Le banche, allarmate, pretesero
allora un rientro immediato dei capitali fino ad allora anticipati.
Ma
la Lamborghini Trattori era un’azienda individuale: se fosse fallita,
avrebbe trascinato nel fallimento Ferruccio Lamborghini in persona.
<
em>Occorreva
quindi liquidità, che poteva essere trovata solo cedendo una quota della
fabbrica di automobili che era invece una società per azioni. Il denaro
necessario a risolvere la crisi della Lamborghini Trattori fu messo a
disposizione
da Georges Rossetti, un sub agente elvetico della Casa, che pretese però
il 51% del pacchetto azionario della Lamborghini Automobili mettendo così
in minoranza proprio il fondatore della fabbrica.
C’erano poi gli inevitabili problemi
legati alla messa a punto della vettura, la cui soluzione richiedeva tempo
e lavoro. A tutto questo si aggiungevano i ritardi dovuti agli
scioperi,
particolarmente numerosi in quel periodo denso di contestazioni dentro
e fuori le fabbriche di tutta l’Italia: pioveva sul bagnato. Nel frattempo
non tutti i clienti attendevano: alcuni, stanchi di aspettare, annullavano
l’ordine d’acquisto.
Insomm
a,
prima di vedere in circolazione un numero significativo di Urraco sarebbe
stato necessario attendere il 1973. A questo punto,
però, le
cose subirono una svolta non prevedibile, sotto forma della crisi energetica
dell’ottobre di quell’anno, un fatto che sconvolse tutto il mondo
dell’automobile
mettendo in discussione per prime proprio le vetture sportive. Come
se non bastasse, fu per di più introdotta dal governo italiano la
cosiddetta
Iva pesante (al 38 per cento) per le automobili di cilindrata superiore
ai 2.000 cc, che in questo modo videro dall’oggi al domani
passare alle stelle il proprio prezzo d’acquisto in un periodo,
oltretutto,
sfavorevole a causa dell’elevata inflazione monetaria innescata dalla
crisi energetica (un’inflazione che all’epoca galoppava con
percentuali
annue a due cifre).
Prima
di tutte, il periodo di difficoltà che la fabbrica stava
attraversando.
Non la Lamborghini Automobili, in realtà: l’azienda, anzi, vendeva
bene
e guadagnava. I problemi venivano dalla Lamborghini
Trattori,
a causa di un’ordinazione di una partita di 5.000 mezzi giunta dal governo
boliviano e che, caduto improvvisamente il governo stesso, non era più
stata confermata da quello successivo. Ferruccio Lamborghini, che i trattori
li aveva già costruiti, si trovò così in difficoltà
e agì d’impulso, licenziando
in tronco il direttore commerciale. Le banche, allarmate, pretesero
allora un rientro immediato dei capitali fino ad allora anticipati.
Ma
la Lamborghini Trattori era un’azienda individuale: se fosse fallita,
avrebbe trascinato nel fallimento Ferruccio Lamborghini in persona.
<
em>Occorreva
quindi liquidità, che poteva essere trovata solo cedendo una quota della
fabbrica di automobili che era invece una società per azioni. Il denaro
necessario a risolvere la crisi della Lamborghini Trattori fu messo a
disposizione
da Georges Rossetti, un sub agente elvetico della Casa, che pretese però
il 51% del pacchetto azionario della Lamborghini Automobili mettendo così
in minoranza proprio il fondatore della fabbrica.
C’erano poi gli inevitabili problemi
legati alla messa a punto della vettura, la cui soluzione richiedeva tempo
e lavoro. A tutto questo si aggiungevano i ritardi dovuti agli
scioperi,
particolarmente numerosi in quel periodo denso di contestazioni dentro
e fuori le fabbriche di tutta l’Italia: pioveva sul bagnato. Nel frattempo
non tutti i clienti attendevano: alcuni, stanchi di aspettare, annullavano
l’ordine d’acquisto.
Insomm
a,
prima di vedere in circolazione un numero significativo di Urraco sarebbe
stato necessario attendere il 1973. A questo punto,
però, le
cose subirono una svolta non prevedibile, sotto forma della crisi energetica
dell’ottobre di quell’anno, un fatto che sconvolse tutto il mondo
dell’automobile
mettendo in discussione per prime proprio le vetture sportive. Come
se non bastasse, fu per di più introdotta dal governo italiano la
cosiddetta
Iva pesante (al 38 per cento) per le automobili di cilindrata superiore
ai 2.000 cc, che in questo modo videro dall’oggi al domani
passare alle stelle il proprio prezzo d’acquisto in un periodo,
oltretutto,
sfavorevole a causa dell’elevata inflazione monetaria innescata dalla
crisi energetica (un’inflazione che all’epoca galoppava con
percentuali
annue a due cifre).
La P300 e la P200
L
a
risposta della Casa fu un capolavoro di strategia. Dato che la Urraco piaceva
anche perché era davvero divertente da guidare, fu rapidamente messo in
cantiere un motore da tre litri per meglio riqualificare la vettura in
termini di prestazioni pure. Contemporaneamente, però, era
indispensabile
guardare anche dal lato opposto, verso una cilindrata che avrebbe consentito
di mettere a disposizione dei clienti un modello di prestigio come la Urraco
a un prezzo significativamente ridotto grazie a una tassazione più
leggera:
cioè un motore appena sotto la soglia dei due litri.
La mossa
non era sbagliata: il modello da tre litri, siglato
P300,
veniva ad essere una sorta di piccola Miura che si opponeva principalmente
alla nuova entrata nel settore, la Dino 308 Gt4 che, come la Urraco, aveva
motore centrale e abitacolo a 2+2 posti. La P200 avrebbe dovuto attirare
invece nuovi clienti che non avevano la disponibilità economica per
entrare
in possesso di una P300. L
e
cose andarono nel verso previsto per quanto riguarda la P300, che apparve
sul mercato nel 1975 e che riscosse un buon successo relativamente a
quegli anni di crisi, anche se gli esemplari venduti furono in assoluto
troppo pochi per garantire alla Casa un adeguato ritorno
finanziario.
Decisamente male andò invece alla P200, anch’essa
presentata
nel corso del medesimo anno e il cui motore fu derivato dal monoalbero
della P250. Fu costruita in soli 66 esemplari (tutti con
guida a sinistra) nel biennio che va dal 1975 al 1977, un numero eccessivamente
esiguo che non ne premia le qualità (che invece c’erano), a
conferma del
fatto che il cliente di vetture di questo tipo non guarda più di tanto
al prezzo di listino.
Ce
rto
le difficoltà sarebbero state minori se la Urraco si fosse potuta vendere
bene anche negli Stati Uniti. La versione ideale era la P300, ma persistevano
oggettive difficoltà nel far rientrare il V8 entro gli stretti limiti
delle
norme americane antipollution. Metterlo a norma avrebbe richiesto
interventi che furono giudicati eccessivamente onerosi, ragione per cui
si preferì esportare la P250 a cui fu dato il nome di Urraco 111. La
versione
a stelle e strisce fu preparata alla fine del 1974, ma il suo motore, dopo
la cura antinquinamento, si ritrovò con soli 180 Cv dagli iniziali
220,
e per di più gravato da un peso della vettura superiore di 40 kg a causa
dell’installazione di quanto occorreva per ottemperare alle norme
là vigenti.
Troppo pochi per avere successo in un Paese per il quale il nome Lamborghini
era soprattutto sinonimo di potenza e di prestazioni all’avanguardia.
A questo punto le versioni della
Lamborghini Urraco, sul mercato italiano, erano tre: P200, P250 e P300,
e tali rimasero anche nel 1976. L’anno successivo la sola P300 sopravvisse
e continuò la sua avventura, con allestimento esterno reso uguale alla
versione USA (luci laterali a parte) fino al 1979, l’anno della seconda
crisi energetica, al termine del quale all’avventura della Urraco fu posta
la parola fine.
L
a
risposta della Casa fu un capolavoro di strategia. Dato che la Urraco piaceva
anche perché era davvero divertente da guidare, fu rapidamente messo in
cantiere un motore da tre litri per meglio riqualificare la vettura in
termini di prestazioni pure. Contemporaneamente, però, era
indispensabile
guardare anche dal lato opposto, verso una cilindrata che avrebbe consentito
di mettere a disposizione dei clienti un modello di prestigio come la Urraco
a un prezzo significativamente ridotto grazie a una tassazione più
leggera:
cioè un motore appena sotto la soglia dei due litri.
La mossa
non era sbagliata: il modello da tre litri, siglato
P300,
veniva ad essere una sorta di piccola Miura che si opponeva principalmente
alla nuova entrata nel settore, la Dino 308 Gt4 che, come la Urraco, aveva
motore centrale e abitacolo a 2+2 posti. La P200 avrebbe dovuto attirare
invece nuovi clienti che non avevano la disponibilità economica per
entrare
in possesso di una P300. L
e
cose andarono nel verso previsto per quanto riguarda la P300, che apparve
sul mercato nel 1975 e che riscosse un buon successo relativamente a
quegli anni di crisi, anche se gli esemplari venduti furono in assoluto
troppo pochi per garantire alla Casa un adeguato ritorno
finanziario.
Decisamente male andò invece alla P200, anch’essa
presentata
nel corso del medesimo anno e il cui motore fu derivato dal monoalbero
della P250. Fu costruita in soli 66 esemplari (tutti con
guida a sinistra) nel biennio che va dal 1975 al 1977, un numero eccessivamente
esiguo che non ne premia le qualità (che invece c’erano), a
conferma del
fatto che il cliente di vetture di questo tipo non guarda più di tanto
al prezzo di listino.
Ce
rto
le difficoltà sarebbero state minori se la Urraco si fosse potuta vendere
bene anche negli Stati Uniti. La versione ideale era la P300, ma persistevano
oggettive difficoltà nel far rientrare il V8 entro gli stretti limiti
delle
norme americane antipollution. Metterlo a norma avrebbe richiesto
interventi che furono giudicati eccessivamente onerosi, ragione per cui
si preferì esportare la P250 a cui fu dato il nome di Urraco 111. La
versione
a stelle e strisce fu preparata alla fine del 1974, ma il suo motore, dopo
la cura antinquinamento, si ritrovò con soli 180 Cv dagli iniziali
220,
e per di più gravato da un peso della vettura superiore di 40 kg a causa
dell’installazione di quanto occorreva per ottemperare alle norme
là vigenti.
Troppo pochi per avere successo in un Paese per il quale il nome Lamborghini
era soprattutto sinonimo di potenza e di prestazioni all’avanguardia.
A questo punto le versioni della
Lamborghini Urraco, sul mercato italiano, erano tre: P200, P250 e P300,
e tali rimasero anche nel 1976. L’anno successivo la sola P300 sopravvisse
e continuò la sua avventura, con allestimento esterno reso uguale alla
versione USA (luci laterali a parte) fino al 1979, l’anno della seconda
crisi energetica, al termine del quale all’avventura della Urraco fu posta
la parola fine.
Su strada
La
Lamborghini Urraco è una macchina che non passa
inosservata:
oltre a essere indiscutibilmente bella, al solo
vederla mette
un’irrefrenabile voglia di sedersi al posto di guida. E in più
regala
un insospettabile grado di comfort. Il grado di finitura è elevato: i
soli
appunti riguardano la plancia portastrumenti, di difficile lettura, e la
posizione di guida disassata. La Urraco non è un’auto
“nervosa”, ma
si mantiene neutra con un lieve accenno di
sottosterzo all’ingresso
delle curve e un moderato e controllabile sovrasterzo di potenza in uscita:
merito anche del lavoro di messa a punto svolto dai due collaudatori della
Casa, l’americano Bob Wallace e Valentino Balboni.
Al
resto del godimento pensano i generosi motori V8 da 2.463 e 2.996 cc di
cilindrata, con potenze allora ai vertici delle rispettive categorie: 220
Cv DIN per il 2,5 litri e 250 per il 3.000, che, su una vettura che in
ordine di marcia pesa solo 1.150 kg, si fanno sentire. Ma anche il P200
non scherzava. Era, con i suoi 182 Cv DIN, un motore che ancora oggi sarebbe
tra i più potenti due litri aspirati in circolazione. La P300 è
in realtà
una versione evoluta della P250. Pur condividendone la linea presenta piccole
modifiche che furono introdotte sulla scorta dell’esperienza maturata
in corso di produzione: qualche rinforzo alla scocca e, naturalmente, le
modifiche rese necessarie dall’aumento di potenza, come il disco frizione
di maggiore diametro.
La
Lamborghini Urraco è una macchina che non passa
inosservata:
oltre a essere indiscutibilmente bella, al solo
vederla mette
un’irrefrenabile voglia di sedersi al posto di guida. E in più
regala
un insospettabile grado di comfort. Il grado di finitura è elevato: i
soli
appunti riguardano la plancia portastrumenti, di difficile lettura, e la
posizione di guida disassata. La Urraco non è un’auto
“nervosa”, ma
si mantiene neutra con un lieve accenno di
sottosterzo all’ingresso
delle curve e un moderato e controllabile sovrasterzo di potenza in uscita:
merito anche del lavoro di messa a punto svolto dai due collaudatori della
Casa, l’americano Bob Wallace e Valentino Balboni.
Al
resto del godimento pensano i generosi motori V8 da 2.463 e 2.996 cc di
cilindrata, con potenze allora ai vertici delle rispettive categorie: 220
Cv DIN per il 2,5 litri e 250 per il 3.000, che, su una vettura che in
ordine di marcia pesa solo 1.150 kg, si fanno sentire. Ma anche il P200
non scherzava. Era, con i suoi 182 Cv DIN, un motore che ancora oggi sarebbe
tra i più potenti due litri aspirati in circolazione. La P300 è
in realtà
una versione evoluta della P250. Pur condividendone la linea presenta piccole
modifiche che furono introdotte sulla scorta dell’esperienza maturata
in corso di produzione: qualche rinforzo alla scocca e, naturalmente, le
modifiche rese necessarie dall’aumento di potenza, come il disco frizione
di maggiore diametro.