04 September 2006

Tecnica: dossier ibride

Tecnica: dossier ibride

Introduzione


In America, il mito per eccellenza è il mito della conquista. Gli americani, gente spiccia e pratica, sono affezionati ai suoi simboli concreti: il rocket, simbolo della conquista dello spazio in verticale, e  il truck, simbolo della conquista dello spazio in orizzontale.In comune, i rocket (razzi spaziali) e i truck (pick-up, jeep e SUV) hanno il consumo esorbitante: una caratteristica alla quale anche gli americani, in questi anni di caro-petrolio, sono diventati sensibili. E dato che loro restano i più grandi consumatori del pianeta, le Case costruttrici hanno cercato di venire loro incontro.

Poiché oltreoceano il diesel continua a non piacere (come le auto di lunghezza inferiore ai 5 metri e altezza inferiore ai 2), l’unica risposta sensata è stata l’ibrido. Ecco perché partiamo dagli Stati Uniti: perché quello è il mercato trainante per la tecnologia dell’ibrido, e di conseguenza quello le cui esigenze definiranno i trend e gli standard dei costruttori.Ma non solo. Anche se ormai identificata con il Giappone, l’ibrido è una tecnologia nata sotto la spinta della lungimirante amministrazione pubblica statunitense.
In America, il mito per eccellenza è il mito della conquista. Gli americani, gente spiccia e pratica, sono affezionati ai suoi simboli concreti: il rocket, simbolo della conquista dello spazio in verticale, e  il truck, simbolo della conquista dello spazio in orizzontale.In comune, i rocket (razzi spaziali) e i truck (pick-up, jeep e SUV) hanno il consumo esorbitante: una caratteristica alla quale anche gli americani, in questi anni di caro-petrolio, sono diventati sensibili. E dato che loro restano i più grandi consumatori del pianeta, le Case costruttrici hanno cercato di venire loro incontro.

Poich&eacu te; oltreoceano il diesel continua a non piacere (come le auto di lunghezza inferiore ai 5 metri e altezza inferiore ai 2), l’unica risposta sensata è stata l’ibrido. Ecco perché partiamo dagli Stati Uniti: perché quello è il mercato trainante per la tecnologia dell’ibrido, e di conseguenza quello le cui esigenze definiranno i trend e gli standard dei costruttori.Ma non solo. Anche se ormai identificata con il Giappone, l’ibrido è una tecnologia nata sotto la spinta della lungimirante amministrazione pubblica statunitense.

La storia



Già nel 1976, infatti, il Congresso varò la legge 94-413, “Ricerca e sviluppo su veicoli elettrici e ibridi”, che mirava a sviluppare le batterie, i motori elettrici e i sistemi di controllo.
Le difficoltà nella logica di controllo si rivelano quasi insormontabili per i sistemi dell’epoca; anche lo shock della prima crisi petrolifera viene superato e così devono passare quasi venti anni perché l’amministrazione USA vari un progetto concreto. Nel 1993, Bill Clinton promuove la “Partnership per una Nuova Generazione di Veicoli” (PNGV) che pone l’obiettivo di un’auto pulita capace di percorrere 80 miglia con un gallone di benzina (34 km/l). La strada tecnologica è lasciata libera, ma i 3 prototipi che emergono dopo diversi anni di lavoro (e un miliardo di dollari di fondi) sono tutti ibridi.

Il programma PGNV è riservato all’industria americana: Toyota, pur possedendo fabbriche sul territorio USA, viene esclusa. Il presidente Eiji Toyoda, per tutta risposta, lancia un progetto segreto chiamato G21 per creare “l’auto globale per il 21° secolo”, con consumi ridotti del 50%. Il progetto che darà vita alla Prius.
Se la Prius I del 1997 è un buon prodotto, la Prius II del 2003 è addirittura rivoluzionaria. E arriva al momento giusto: con la sua immagine tecnologica e il prezzo del greggio in costante ascesa, fa impazzire gli Stati Uniti. Sfoggiata dai divi del cinema, venduta in centinaia di migliaia di pezzi, viene eletta Auto dell’Anno 2004 e sancisce l’inarrestabile ascesa degli ibridi: tutti i costruttori corrono ai ripari, perlomeno nelle dichiarazioni, in cui i programmi di trazione ibrida si sprecano. Ma le onde, si sa, salgono e scendono: a inizio luglio, Ford ha ritrattato la sua precedente previsione di allestire 250.000 ibridi entro il 2010. Bill Ford ha detto chiaro e tondo che non ha senso investire così tanto denaro in una sola direzione, e per di più senza ben conoscere le attitudini del mercato. Ciò non significa certo che Ford, né nessun altro Costruttore, smetterà di lavorare in questa direzione; solo che per ridurre i consumi darà precedenza a tecnologie meglio conosciute e più sicure: dal Diesel pulito ai nuovi motori a benzina turbo-iniezione diretta. Del resto a Ford mancano due tasselli fondamentali: un fornitore non giapponese di batterie ad alta capacità e soprattutto una piattaforma ibrida a trazione posteriore con cui equipaggiare i suoi vendutissimi trucks (oltre il 60% delle vendite di Ford in patria). La tecnologia ibrida si compone infatti di diversi tasselli: nessuno dei quali è tecnologicamente proibitivo, ma che diventa un bel rompicapo assemblare nel modo migliore. Toyota ci è riuscita in modo esemplare con il suo HSD, forte di una solidità finanziaria senza eguali e della mancanza di fretta. Ora ha omologato tutti i suoi ibridi secondo la rigidissima normativa californiana SULEV, e i costruttori americani, che negli scorsi anni hanno puntato tutto sullo sviluppo delle fuel cell, non possono rischiare di essere messi fuori gioco.

Purtroppo per loro, gli investimenti richiesti per lo sviluppo di una piattaforma ibrida restano però colossali. Per recuperare il ritardo accumulato sui giapponesi, sono sorte cordate di una trasversalità senza precedenti, come quella GM-DaimlerChrysler-Bmw (ma GM si aspetta di raccogliere altre adesioni!). Altri, come Renault e Nissan, hanno acquistato direttamente tecnologia Toyota; Ford, dopo aver portato avanti  autonomamente lo sviluppo di un sistema ibrido, ha scoperto che le somiglianze con quello Toyota la avrebbero messa a rischio di causa giudiziaria; decidendo a quel punto di acquistare la licenza d’uso e integrarla con i brevetti nel frattempo depositati.Insomma: l’ibrido costa e la prudenza è d’obbligo: gli analisti hanno già rivisto al ribasso le loro previsioni di penetrazione sul mercato USA, dopo averle riviste al rialzo a seguito dell’imprevisto successo della Prius. Il fatto è che gli americani, per quanto emotivi, sono molto attaccati alle tradizioni: e le auto grandi e grosse sono un punto cardinale della loro idea di progresso e di libertà. Il fronte pro-ibrido trova perciò una accanita resistenza da parte di chi si è messo a fare attentamente i calcoli, accorgendosi che i vantaggi dell’ibrido non sono poi così decisivi nelle grandi aree extraurbane dominate dai trucks. Molti acquirenti sono rimasti delusi nel trovare consumi lontanissimi da quelli dichiarati, e ormai su tutte le brochure e i siti web compaiono raccomandazioni che spiegano quale stile di guida adottare per ottenere i consumi previsti, e perché questi possono variare.
Già nel 1976, infatti, il Congresso varò la legge 94-413, “Ricerca e sviluppo su veicoli elettrici e ibridi”, che mirava a sviluppare le batterie, i motori elettrici e i sistemi di controllo. Le difficoltà nella logica di controllo si rivelano quasi insormontabili per i sistemi dell’epoca; anche lo shock della prima crisi petrolifera viene superato e così devono passare quasi venti anni perché l’amministrazione USA vari un progetto concreto. Nel 1993, Bill Clinton promuove la “Partnership per una Nuova Generazione di Veicoli” (PNGV) che pone l’obiettivo di un’auto pulita capace di percorrere 80 miglia con un gallone di benzina (34 km/l). La strada tecnologica è lasciata libera, ma i 3 prototipi che emergono dopo diversi anni di lavoro (e un miliardo di dollari di fondi) sono tutti ibridi.


Il programma PGNV è riservato all’industria americana: Toyota, pur possedendo fabbriche sul territorio USA, viene esclusa. Il presidente Eiji Toyoda, per tutta risposta, lancia un progetto segreto chiamato G21 per creare “l’auto globale per il 21° secolo”, con consumi ridotti del 50%. Il progetto che darà vita alla Prius. Se la Prius I del 1997 è un buon prodotto, la Prius II del 2003 è addirittura rivoluzionaria. E arriva al momento giusto: con la sua immagine tecnologica e il prezzo del greggio in costante ascesa, fa impazzire gli Stati Uniti. Sfoggiata dai divi del cinema, venduta in centinaia di migliaia di pezzi, viene eletta Auto dell’Anno 2004 e sancisce l’inarrestabile ascesa degli ibridi: tutti i costruttori corrono ai ripari, perlomeno nelle dichiarazioni, in cui i programmi di trazione ibrida si sprecano. Ma le onde, si sa, salgono e scendono: a inizio luglio, Ford ha ritrattato la sua precedente previsione di allestire 250.000 ibridi entro il 2010. Bill Ford ha detto chiaro e tondo che non ha senso investire così tanto denaro in una sola direzione, e per di più senza ben conoscere le attitudini del mercato. Ciò non significa certo che Ford, né nessun altro Costruttore, smetterà di lavorare in questa direzione; solo che per ridurre i consumi darà precedenza a tecnologie meglio conosciute e più sicure: dal Diesel pulito ai nuovi motori a benzina turbo-iniezione diretta. Del resto a Ford mancano due tasselli fondamentali: un fornitore non giapponese di batterie ad alta capacità e soprattutto una piattaforma ibrida a trazione posteriore con cui equipaggiare i suoi vendutissimi trucks (oltre il 60% delle vendite di Ford in patria). La tecnologia ibrida si compone infatti di diversi tasselli: nessuno dei quali è tecnologicamente proibitivo, ma che diventa un bel rompicapo assemblare nel modo migliore. Toyota ci è riuscita in modo esemplare con il suo HSD, forte di una solidità finanziaria senza eguali e della mancanza di fretta. Ora ha omologato tutti i suoi ibridi secondo la rigidissima normativa californiana SULEV, e i costruttori americani, che negli scorsi anni hanno puntato tutto sullo sviluppo delle fuel cell, non possono rischiare di essere messi fuori gioco.

Purtroppo per loro, gli investimenti richiesti per lo sviluppo di una piattaforma ibrida restano però colossali. Per recuperare il ritardo accumulato sui giapponesi, sono sorte cordate di una trasversalità senza precedenti, come quella GM-DaimlerChrysler-Bmw (ma GM si aspetta di raccogliere altre adesioni!). Altri, come Renault e Nissan, hanno acquistato direttamente tecnologia Toyota; Ford, dopo aver portato avanti  autonomamente lo sviluppo di un sistema ibrido, ha scoperto che le somiglianze con quello Toyota la avrebbero messa a rischio di causa giudiziaria; decidendo a quel punto di acquistare la licenza d’uso e integrarla con i brevetti nel frattempo depositati.Insomma: l’ibrido costa e la prudenza è d’obbligo: gli analisti hanno già rivisto al ribasso le loro previsioni di penetrazione sul mercato USA, dopo averle riviste al rialzo a seguito dell’imprevisto successo della Prius. Il fatto è che gli americani, per quanto emotivi, sono molto attaccati alle tradizioni: e le auto grandi e grosse sono un punto cardinale della loro idea di progresso e di libertà. Il fronte pro-ibrido trova perciò una accanita resistenza da parte di chi si è messo a fare attentamente i calcoli, accorgendosi che i vantaggi dell’ibrido non sono poi così decisivi nelle grandi aree extraurbane dominate dai trucks. Molti acquirenti sono rimasti delusi nel trovare consumi lontanissimi da quelli dichiarati, e ormai su tutte le brochure e i siti web compaiono raccomandazioni che spiegano quale stile di guida adottare per ottenere i consumi previsti, e perché questi possono variare.

I marchi tedeschi...



Quanto vale la tecnologia dell’ibrido?
E come mai persino Porsche ha annunciato di avere in programma per il 2008-2010 una Cayenne ibrida – l’equivalente di rinunciare a zuccherare il caffè dopo un cenone di Natale? Proprio la Cayenne ibrida è un buon punto di partenza per spiegare le ragioni dietro a questi veicoli. Il ricco mercato statunitense, dominato dai trucks – veicoli illogici da un punto di vista razionale – ripone negli ibridi speranze di buona coscienza ecologica altrettanto illogiche. In USA è diventato celebre il paradosso secondo il quale portare il consumo di una SUV da 10 a 11 mpg (miglia per gallone, un analogo dei nostri km/l) fa risparmiare più benzina che abbatterlo da 30 a 40 mpg su una berlina. È vero? Verissimo, proprio perché le SUV sono così assetati di benzina. Basta fare i conti su distanze sufficientemente elevate: in 100.000 km, la SUV da 11 mpg risparmia oltre 2.500 litri di carburante, contro i 2.450 della berlina da 40 mpg. Peccato che su quella distanza il primo ne succhi oltre 21.000 litri, contro i nemmeno 6.000 richiesti dalla seconda.
Così, mentre aspettiamo che le highways si popolino di Cayenne da 11 o 12 mpg, possiamo cominciare a capire come mai un’azienda tedesca sia così ostile alle motorizzazioni diesel, che consentirebbero di ottenere consumi anche migliori. Tanto per cominciare, l’ibrido rappresenta nell’immaginario collettivo il vero stato dell’arte della tecnologia, con cui Porsche ha sempre tenuto ad identificarsi. In secondo luogo, l’ibrido è una forma di propulsione già accettata da un mercato fondamentale come quello USA, mentre non altrettanto si può dire del diesel. Infine, a Weissach sono attaccati in modo quasi ossessivo alle tradizioni: e nella storia di Porsche il gasolio non ha lasciato traccia, ma l’ibrido sì. Dobbiamo tornare addirittura al 1898, quando Ferdinand Porsche, ventitreenne ingegnere di belle speranze, progetta e realizza la sua prima automobile, la “Poltrona Elettrica Lohne”. Si tratta di un prototipo, anche innovativo (è il primo esempio di auto a trazione anteriore), ma forse a causa del nome non particolarmente beneaugurate viene modificato, nel 1902, nella “Lohne Mista”: un ibrido in cui un motore a scoppio alimenta, attraverso un generatore, due motori elettrici collegati alle ruote. Ci sono anche delle batterie, che consentono alla vetturetta un’autonomia di una cinquantina di km. Di quei primi esperimenti la Cayenne non conserverà nulla: sarà un ibrido parallelo, basato con tutta probabilità su tecnologia Audi, dopo il recente ingresso di Porsche nel capitale VW. Il fatto che inizialmente Porsche avesse intavolato trattative con Toyota la dice però lunga sul diverso grado di sviluppo dei giapponesi rispetto al resto del mondo. Con l’HSD, Toyota ha messo a punto la combinazione motore endotermico-motore elettrico-trasmissione sulla carta più efficiente. Uno schema esteso ora alla Lexus RX 400h e alla Ford Explorer, per ottenere una “transaxle ibrida” a quattro ruote motrici.

La meravigliosa semplicità dell’HSD, un sistema a planetario in cui convergono motore endotermico e motore elettrico, è di consentire con grande semplicità meccanica un funzionamento di tipo sia serie che parallelo, oltre a svolgere la funzione di cambio a variazione continua (CVT). Ma per quanto questa disposizione degli organi meccanici sia particolarmente azzeccata, gli attuali strumenti di sviluppo consentono di mettere a punto soluzioni alternative altrettanto funzionali. Una di queste dovrebbe esordire sulla Audi Q7 ibrida vista a Francoforte, che realizza la stessa strategia della RX 400h con una meccanica più tradizionale. Audi sfrutta il suo vantaggio nello studio dell’iniezione diretta adottando un evoluto V8 4.2 FSI da 350 CV e 440 Nm, affiancato da un motore elettrico da 200 Nm integrato nella trasmissione (è lo schema Bosch, che ha appena lanciato una partnership con Getrag per realizzare questa struttura su un cambio a doppia frizione DSG). Nonostante il peso più elevato la presenza delle batterie, l’accelerazione 0-100 migliora di 0,6 secondi, la ripresa 80-120 addirittura 2 secondi (il 25%) in meno e il consumo scende del 13% nel ciclo combinato (12 l/100 km), del 20% nel ciclo urbano. Il motore elettrico basta a spingere la Q7 fino a 30 km/h. Sempre a Francoforte, Bmw ha presentato una X3 ibrida.

Durante le Olimpiadi Invernali, a Torino hanno invece fatto servizio navetta due minibus Iveco equipaggiati con diesel ibridi co-sviluppati con Bosch. Mercedes, nonostante l’impegno profuso nell’idrogeno, ha annunciato già al Salone di Detroit 2005 addirittura due versioni ibride della Classe S. Il sistema è incentrato sull’unità P1/2 sviluppata con Bosch, dotata sulla carta di notevoli efficienza e compattezza. La S ibrida dovrebbe anche essere il primo ibrido Diesel su un’automobile. Anche PSA lavora su questa soluzione, che offre prestazioni ottimali ma è più difficile da mettere a punto per le elevate inerzie del motore diesel, e soprattutto costosissima. Mercedes comunque ci crede e pare pronta a offrire un V8 CDI da 260 Cv (191 kW) e 560 Nm di coppia accoppiato a due motori elettrici che assommano 70 Cv (50 kW). La poderosa coppia risultante garantisce un’ eccellente 7,6 secondi nello 0-100, mentre la batteria, una Ni-MH da 1,9 kWh (altra scelta decisamente costosa) è alloggiata sotto il bagagliaio. Si tratta di un “full hybrid”, capace di partire in elettrico e di frenata rigenerativa, con un’architettura relativamente semplice: pur non avendo il planetario dell’HSD Toyota, la Classe S fa a meno del convertitore di coppia grazie all’abbinamento della trasmissione automatica 7G-Tronic con il modulo ibrido P1/2, che integra in modo molto compatto i motori elettrici lasciando invariato lo spazio interno. Tale abbinamento offre grande flessibilità: l’efficienza del motore migliora anche a velocità costante, perché il sistema P1/2 consente di far lavorare il diesel nel range di rendimento ottimale. Il consumo, stando a Mercedes, si riduce del 15-25% a seconda del ciclo di riferimento: vale circa 7 litri per100 km (34 mpg).
Quanto vale la tecnologia dell’ibrido? E come mai persino Porsche ha annunciato di avere in programma per il 2008-2010 una Cayenne ibrida – l’equivalente di rinunciare a zuccherare il caffè dopo un cenone di Natale? Proprio la Cayenne ibrida è un buon punto di partenza per spiegare le ragioni dietro a questi veicoli. Il ricco mercato statunitense, dominato dai trucks – veicoli illogici da un punto di vista razionale – ripone negli ibridi speranze di buona coscienza ecologica altrettanto illogiche. In USA è diventato celebre il paradosso secondo il quale portare il consumo di una SUV da 10 a 11 mpg (miglia per gallone, un analogo dei nostri km/l) fa risparmiare più benzina che abbatterlo da 30 a 40 mpg su una berlina. È vero? Verissimo, proprio perché le SUV sono così assetati di benzina. Basta fare i conti su distanze sufficientemente elevate: in 100.000 km, la SUV da 11 mpg risparmia oltre 2.500 litri di carburante, contro i 2.450 della berlina da 40 mpg. Peccato che su quella distanza il primo ne succhi oltre 21.000 litri, contro i nemmeno 6.000 richiesti dalla seconda.
Così, mentre aspettiamo che le highways si popolino di Cayenne da 11 o 12 mpg, possiamo cominciare a capire come mai un’azienda tedesca sia così ostile alle motorizzazioni diesel, che consentirebbero di ottenere consumi anche migliori. Tanto per cominciare, l’ibrido rappresenta nell’immaginario collettivo il vero stato dell’arte della tecnologia, con cui Porsche ha sempre tenuto ad identificarsi. In secondo luogo, l’ibrido è una forma di propulsione già accettata da un mercato fondamentale come quello USA, mentre non altrettanto si può dire del diesel. Infine, a Weissach sono attaccati in modo quasi ossessivo alle tradizioni: e nella storia di Porsche il gasolio non ha lasciato traccia, ma l’ibrido sì. Dobbiamo tornare addirittura al 1898, quando Ferdinand Porsche, ventitreenne ingegnere di belle speranze, progetta e realizza la sua prima automobile, la “Poltrona Elettrica Lohne”. Si tratta di un prototipo, anche innovativo (è il primo esempio di auto a trazione anteriore), ma forse a causa del nome non particolarmente beneaugurate viene modificato, nel 1902, nella “Lohne Mista”: un ibrido in cui un motore a scoppio alimenta, attraverso un generatore, due motori elettrici collegati alle ruote. Ci sono anche delle batterie, che consentono alla vetturetta un’autonomia di una cinquantina di km. Di quei primi esperimenti la Cayenne non conserverà nulla: sarà un ibrido parallelo, basato con tutta probabilità su tecnologia Audi, dopo il recente ingresso di Porsche nel capitale VW. Il fatto che inizialmente Porsche avesse intavolato trattative con Toyota la dice però lunga sul diverso grado di sviluppo dei giapponesi rispetto al resto del mondo. Con l’HSD, Toyota ha messo a punto la combinazione motore endotermico-motore elettrico-trasmissione sulla carta più efficiente. Uno schema esteso ora alla Lexus RX 400h e alla Ford Explorer, per ottenere una “transaxle ibrida” a quattro ruote motrici.


La meravigliosa semplicità dell’HSD, un sistema a planetario in cui convergono motore endotermico e motore elettrico, è di consentire con grande semplicità meccanica un funzionamento di tipo sia serie che parallelo, oltre a svolgere la funzione di cambio a variazione continua (CVT). Ma per quanto questa disposizione degli organi meccanici sia particolarmente azzeccata, gli attuali strumenti di sviluppo consentono di mettere a punto soluzioni alternative altrettanto funzionali. Una di queste dovrebbe esordire sulla Audi Q7 ibrida vista a Francoforte, che realizza la stessa strategia della RX 400h con una meccanica più tradizionale. Audi sfrutta il suo vantaggio nello studio dell’iniezione diretta adottando un evoluto V8 4.2 FSI da 350 CV e 440 Nm, affiancato da un motore elettrico da 200 Nm integrato nella trasmissione (è lo schema Bosch, che ha appena lanciato una partnership con Getrag per realizzare questa struttura su un cambio a doppia frizione DSG). Nonostante il peso più elevato la presenza delle batterie, l’accelerazione 0-100 migliora di 0,6 secondi, la ripresa 80-120 addirittura 2 secondi (il 25%) in meno e il consumo scende del 13% nel ciclo combinato (12 l/100 km), del 20% nel ciclo urbano. Il motore elettrico basta a spingere la Q7 fino a 30 km/h. Sempre a Francoforte, Bmw ha presentato una X3 ibrida.



Durante le Olimpiadi Invernali, a Torino hanno invece fatto servizio navetta due minibus Iveco equipaggiati con diesel ibridi co-sviluppati con Bosch. Mercedes, nonostante l’impegno profuso nell’idrogeno, ha annunciato già al Salone di Detroit 2005 addirittura due versioni ibride della Classe S. Il sistema è incentrato sull’unità P1/2 sviluppata con Bosch, dotata sulla carta di notevoli efficienza e compattezza. La S ibrida dovrebbe anche essere il primo ibrido Diesel su un’automobile. Anche PSA lavora su questa soluzione, che offre prestazioni ottimali ma è più difficile da mettere a punto per le elevate inerzie del motore diesel, e soprattutto costosissima. Mercedes comunque ci crede e pare pronta a offrire un V8 CDI da 260 Cv (191 kW) e 560 Nm di coppia accoppiato a due motori elettrici che assommano 70 Cv (50 kW). La poderosa coppia risultante garantisce un’eccellente 7,6 secondi nello 0-100, mentre la batteria, una Ni-MH da 1,9 kWh (altra scelta decisamente costosa) è alloggiata sotto il bagagliaio. Si tratta di un “full hybrid”, capace di partire in elettrico e di frenata rigenerativa, con un’architettura relativamente semplice: pur non avendo il planetario dell’HSD Toyota, la Classe S fa a meno del convertitore di coppia grazie all’abbinamento della trasmissione automatica 7G-Tronic con il modulo ibrido P1/2, che integra in modo molto compatto i motori elettrici lasciando invariato lo spazio interno. Tale abbinamento offre grande flessibilità: l’efficienza del motore migliora anche a velocità costante, perché il sistema P1/2 consente di far lavorare il diesel nel range di rendimento ottimale. Il consumo, stando a Mercedes, si riduce del 15-25% a seconda del ciclo di riferimento: vale circa 7 litri per100 km (34 mpg).

In Giappone



Tornando al Giappone, sono interessanti le scelte di Subaru, una Casa piccola ma che dispone delle considerevoli risorse del colossale gruppo Fuji Heavy Industries. A Francoforte si è vista la B5-TPH, dotata di due piccoli motori elettrici da 10 kW interposti tra il 4 cilindri boxer turbocompresso e la trasmissione automatica. I motori elettrici intervengono soprattutto alle basse velocità, quando il turbo è inattivo, e lo sostengono fino ai medi. Inoltre, come sulla Prius, si è scelto di intervenire anche sul motore endotermico, facendogli seguire non il ciclo Otto ma quello Atkinson – come sugli ibridi Toyota e Ford – che prevede di tenere aperta l’ammissione durante parte del ciclo di compressione per differenziare il rapporto di espansione da quello di compressione ed elevare il lavoro raccolto dal motore senza incorrere nella detonazione. Questo ciclo riduce le perdite di pompaggio, ma limita anche il volume di aria aspirata: la sovralimentazione, tuttavia, permette di ovviare a questo inconveniente e il rendimento termodinamico può salire addirittura del 30% rispetto ad un motore convenzionale (5,9 l/100 km) senza che le caratteristiche prestazionali associate a Subaru vengano penalizzate (la B5-TPH ha 256 Cv e 343 Nm). Si parla in questo caso di ciclo Miller, che richiederebbe in realtà un compressore, poiché la fasatura Atkinson riduce anche le prestazioni della turbina; tuttavia Subaru ha progettato una girante specifica da abbinare al TPH.

Questo da solo non basta a garantire una buona dinamica di risposta ai bassi, ma si sposa perfettamente con l’introduzione dei motori elettrici di supporto. La B5-TPH è un ibrido leggero, simile alla prima Honda Civic IMA: non può funzionare in modalità solo elettrica, ma mostra i risultati che è possibile raggiungere con costi relativamente bassi.
Il TPH richiede anche batterie meno ingombranti, tanto più che la Fuji è avanti nello sviluppo di batterie: sembra imminente l’introduzione della batteria al Manganese e ioni di Litio sviluppata dalla consociata NEC, mentre proseguono gli studi sul supercondensatore al litio (si veda il box dedicato). Notevole anche il risultato ottenuto con i motori elettrici, che con soli 10 kW sono in grado di erogare ben 150 Nm di coppia (la nuova Civic IMA dispone di motori da 15 kW con 103 Nm di coppia).

Tornando al Giappone, sono interessanti le scelte di Subaru, una Casa piccola ma che dispone delle considerevoli risorse del colossale gruppo Fuji Heavy Industries. A Francoforte si è vista la B5-TPH, dotata di due piccoli motori elettrici da 10 kW interposti tra il 4 cilindri boxer turbocompresso e la trasmissione automatica. I motori elettrici intervengono soprattutto alle basse velocità, quando il turbo è inattivo, e lo sostengono fino ai medi. Inoltre, come sulla Prius, si è scelto di intervenire anche sul motore endotermico, facendogli seguire non il ciclo Otto ma quello Atkinson – come sugli ibridi Toyota e Ford – che prevede di tenere aperta l’ammissione durante parte del ciclo di compressione per differenziare il rapporto di espansione da quello di compressione ed elevare il lavoro raccolto dal motore senza incorrere nella detonazione. Questo ciclo riduce le perdite di pompaggio, ma limita anche il volume di aria aspirata: la sovralimentazione, tuttavia, permette di ovviare a questo inconveniente e il rendimento termodinamico può salire addirittura del 30% rispetto ad un motore convenzionale (5,9 l/100 km) senza che le caratteristiche prestazionali associate a Subaru vengano penalizzate (la B5-TPH ha 256 Cv e 343 Nm). Si parla in questo caso di ciclo Miller, che richiederebbe in realtà un compressore, poiché la fasatura Atkinson riduce anche le prestazioni della turbina; tuttavia Subaru ha progettato una girante specifica da abbinare al TPH.

Que sto da solo non basta a garantire una buona dinamica di risposta ai bassi, ma si sposa perfettamente con l’introduzione dei motori elettrici di supporto. La B5-TPH è un ibrido leggero, simile alla prima Honda Civic IMA: non può funzionare in modalità solo elettrica, ma mostra i risultati che è possibile raggiungere con costi relativamente bassi. Il TPH richiede anche batterie meno ingombranti, tanto più che la Fuji è avanti nello sviluppo di batterie: sembra imminente l’introduzione della batteria al Manganese e ioni di Litio sviluppata dalla consociata NEC, mentre proseguono gli studi sul supercondensatore al litio (si veda il box dedicato). Notevole anche il risultato ottenuto con i motori elettrici, che con soli 10 kW sono in grado di erogare ben 150 Nm di coppia (la nuova Civic IMA dispone di motori da 15 kW con 103 Nm di coppia).

Tre scuole differenti...



Si sta insomma delineando un confronto tra tre scuole tecniche: giapponese, statunitense ed europea. In realtà la recente ondata di accordi ha scardinato tutto: Toyota fornirà il suo HSD a Renault-Nisssan e Ford, mentre Bmw, GM e DaimlerChrysler hanno annunciato che uniranno le loro forze per recuperare il terreno perduto e ammortizzare gli investimenti necessari. Non è ancora chiaro se Toyota riesca a guadagnare sugli ibridi che vende, mentre è certo che Ford venda i suoi Explorer in perdita. C’è molta incertezza riguardo al mercato: nessuno sa dire quanto sia duratura la richiesta e c’è chi pensa che Toyota abbia già saturato da sola la domanda, riuscendo forse a raggiungere il punto di pareggio: per gli altri, c’è solo da perdere denaro. È fuori di dubbio che, Prius e Civic IMA a parte, il posizionamento della totalità delle vetture ibride è nell’alto di gamma: tutti hanno presentato modelli grandi e lussuosi, più adatti ad una tecnologia costosa e ancora da “intenditori”. Lo schema Mercedes è il primo nato in funzione di motori potenti, ma l’HSD, declinabile dalla Prius alla Lexus LS600h,  resta imbattibile per flessibilità. Toyota è risultata imbattibile quanto a razionalità: l’HSD non è del resto una rosa fiorita nel deserto energetico, ma il frutto di un nuovo modo di pensare introdotto con convinzione dai manager giapponesi. Come aveva fatto negli anni Sessanta per la qualità, Toyota ha introdotto l’idea di eco-compatibilità e sostenibilità in tutti i settori della progettazione. Il risultato è una cura certosina che non tralascia nulla di quanto sta tra l’architettura e la costruzione del veicolo: per esempio, i suoi nuovi stabilimenti di Torrance, California, hanno ottenuto la certificazione ambientale di massimo livello dall’Ente statunitense che se ne occupa per gli edifici. Il complesso è costruito per il 95% con materiali riciclati, e dispone di uno dei più grandi impianti a pannelli solari del Nord America.

Gli americani hanno invece puntato su un cavallo troppo giovane, le fuel cell.
L’amministrazione USA, tuttavia, ha riconosciuto con grande equanimità che gli ibridi possono ridurre l’inquinamento e l’insaziabile fame di greggio del Paese, e li sostengono vigorosamente: esiste un sito del governo (www.fueleconomy.gov) che elenca le auto di questo tipo e ne promuove l’utilizzo. La forza degli americani sta però nell’abilità di coniugare le iniziative ecologiche con il senso degli affari, come emerge chiaramente dagli standard di riduzione dei consumi CAFE (Corporate Average Fuel Economy, Risparmio di Carburante Medio del Costruttore). Si tratta di regole che impongono ai Costruttori non il consumo dei singoli modelli, ma quello medio del parco venduto, che non può essere superiore a 27.5 mpg (11,7 km/l). Ciò spinge i Costruttori che vogliono vendere auto di lusso, generalmente remunerative ma anche assetate, a “pareggiare i conti” producendo e vendendo anche molte auto parsimoniose. Per esempio, per ogni Prius (25 km/l) Toyota acquisisce il diritto di vendere quattro RX da 8,5 km/l.
Si sta insomma delineando un confronto tra tre scuole tecniche: giapponese, statunitense ed europea. In realtà la recente ondata di accordi ha scardinato tutto: Toyota fornirà il suo HSD a Renault-Nisssan e Ford, mentre Bmw, GM e DaimlerChrysler hanno annunciato che uniranno le loro forze per recuperare il terreno perduto e ammortizzare gli investimenti necessari. Non è ancora chiaro se Toyota riesca a guadagnare sugli ibridi che vende, mentre è certo che Ford venda i suoi Explorer in perdita. C’è molta incertezza riguardo al mercato: nessuno sa dire quanto sia duratura la richiesta e c’è chi pensa che Toyota abbia già saturato da sola la domanda, riuscendo forse a raggiungere il punto di pareggio: per gli altri, c’è solo da perdere denaro. È fuori di dubbio che, Prius e Civic IMA a parte, il posizionamento della totalità delle vetture ibride è nell’alto di gamma: tutti hanno presentato modelli grandi e lussuosi, più adatti ad una tecnologia costosa e ancora da “intenditori”. Lo schema Mercedes è il primo nato in funzione di motori potenti, ma l’HSD, declinabile dalla Prius alla Lexus LS600h,  resta imbattibile per flessibilità. Toyota è risultata imbattibile quanto a razionalità: l’HSD non è del resto una rosa fiorita nel deserto energetico, ma il frutto di un nuovo modo di pensare introdotto con convinzione dai manager giapponesi. Come aveva fatto negli anni Sessanta per la qualità, Toyota ha introdotto l’idea di eco-compatibilità e sostenibilità in tutti i settori della progettazione. Il risultato è una cura certosina che non tralascia nulla di quanto sta tra l’architettura e la costruzione del veicolo: per esempio, i suoi nuovi stabilimenti di Torrance, California, hanno ottenuto la certificazione ambientale di massimo livello dall’Ente statunitense che se ne occupa per gli edifici. Il complesso è costruito per il 95% con materiali riciclati, e dispone di uno dei più grandi impianti a pannelli solari del Nord America.


Gli americani hanno invece puntato su un cavallo troppo giovane, le fuel cell. L’amministrazione USA, tuttavia, ha riconosciuto con grande equanimità che gli ibridi possono ridurre l’inquinamento e l’insaziabile fame di greggio del Paese, e li sostengono vigorosamente: esiste un sito del governo (www.fueleconomy.gov) che elenca le auto di questo tipo e ne promuove l’utilizzo. La forza degli americani sta però nell’abilità di coniugare le iniziative ecologiche con il senso degli affari, come emerge chiaramente dagli standard di riduzione dei consumi CAFE (Corporate Average Fuel Economy, Risparmio di Carburante Medio del Costruttore). Si tratta di regole che impongono ai Costruttori non il consumo dei singoli modelli, ma quello medio del parco venduto, che non può essere superiore a 27.5 mpg (11,7 km/l). Ciò spinge i Costruttori che vogliono vendere auto di lusso, generalmente remunerative ma anche assetate, a “pareggiare i conti” producendo e vendendo anche molte auto parsimoniose. Per esempio, per ogni Prius (25 km/l) Toyota acquisisce il diritto di vendere quattro RX da 8,5 km/l.

Il futuro



Gli europei, invece, non paiono granché entusiasti dell’idea dell’ibrido. Hanno investito molto, e con successo, sul Diesel e l’ibrido a benzina, nella migliore delle ipotesi, potrebbe diventare paragonabile al motore Diesel per quanto riguarda i suoi dati di efficienza e di costo. Ma nonostante la crescita dell’offerta di veicoli ibridi, nella migliore delle ipotesi la quota sul mercato mondiale potrebbe arrivare al 2% nel 2010 e al 5% nel 2025: ancora molto poco
.  Anche per questo, anziché puntare tutto su una tecnologia radicale come lo “Strong Hybrid” HSD di Toyota, Bosch punta a introdurre una gamma articolata di Micro, Mild e Strong Hybrids. I primi sono semplici “accessori” miranti a ridurre il consumo, come il sistema Start/Stop o l’alternatore a doppio voltaggio SPS, in grado di alimentare fino a 3 kW a 14V oppure fino a 8 kW a 42 V inviando l’eccedenza alla batteria, pensato per essere combinato con un sistema di recupero energia in frenata. Gli altri sono inseriti nella generale strategia del downsizing attualmente perseguita attraverso sovralimentazione e iniezione diretta.

Ma l’emotivo mercato americano non perdona chi indugia, così GM ha annunciato che metterà il produzione il P1/2 sviluppato con DaimlerChrysler e BMW già nel 2007, offrendolo in opzione su molti modelli in abbinamento al V8 5.7 HEMI per il quale promette economie del 25%, fino a 30 mpg (12,5 km/l) in autostrada. Inoltre la partnership sta sviluppando un sistema di trasmissione a variazione continua elettrica eCVT simile a quanto fa l’HSD, ma basata su una diversa meccanica. L’eCVT ha due modalità elettriche e quattro rapporti di trasmissione fissi: la combinazione di tutte le opzioni porta a 6 modalità di funzionamento: un CVT puramente elettrico, un CVT misto elettrico-endotermico e quattro rapporti fissi con i due motori elettrici pronti a sostenere quello endotermico in accelerazione o a recuperare energia in frenata.

Del P1/2, che sembra la risposta più seria all’HSD, sentiremo certamente parlare.
Al di là dell’implementazione specifica, però, va detto che l’ibrido, per quanto destinato probabilmente a rimanere sempre minoritario nel mercato, non può ormai più essere considerato una tecnologia “alternativa”. Esso rappresenta legittimamente una terza opzione propulsiva, accanto ai motori Otto e Diesel – e senza considerare l’arrivo, che pare ormai imminente, dei motori policarburante in grado di bruciare efficientemente combustibili diversi. L’ibrido è uscito dal ghetto delle stranezze da salone ed è destinato a rimanere: questa consapevolezza ha lanciato una sfida tecnologica sia ai Costruttori, per quanto riguarda le tematiche progettuali e impiantistiche, che ai fornitori, per quanto riguarda quelle componentistiche.

Al momento, alla guida del gruppo è saldamente il Giappone, che produce non solo le vetture più a punto ma anche, di fatto, tutte le batterie ad alta capacità che fanno capo a società come Sanyo, Panasonic e Toshiba. Gli americani hanno fretta di raggiungerli: anche a costo di concentrarsi interamente sull’aspetto impiantistico e di trascurare la componentistica: non è un caso che fra i fornitori tecnologici della joint-venture GM-DaimlerChrysler-BMW non compaia alcun’azienda a stelle e strisce. Gli europei sono più preoccupati del monopolio tecnologico giapponese: in particolare, i tedeschi stanno spingendo l’industria nazionale a fare esperienze in modo da essere pronta entro pochi anni a fornire i modelli ibridi che un po’ tutte le Case hanno già annunciato.


Cosa c’è nel futuro dell’ibrido? Probabilmente questa tecnologia verrà sostituita dalle fuel cell prima di riuscire a diventare dominante: a quel punto, però, avrà già svolto il suo compito più importante. Che è quello di portare una piccola rivoluzione culturale nel modo di concepire l’automobile. L’idea di vettura ibrida, infatti, non “pesa” solo per le sue ricadute dirette, quanto piuttosto perché si inserisce in un contesto ben più ampio. Con il suo accento posto sull’efficienza, infatti, questo tipo di propulsione porta con sé tutta una serie di accorgimenti destinati a diventare sempre più diffusi, perché nessun Costruttore vorrà penalizzare troppo i veicoli “standard”. Accorgimenti che abbiamo cominciato a vedere sulla Prius, e che hanno già cominciato a diffondersi su auto del tutto diverse: si va dall’impiego massiccio di materiali leggeri, ai pneumatici a bassa resistenza al rotolamento, alla rinnovata cura per l’aerodinamica fino allo sfruttamento efficiente dell’energia da parte degli ausiliari. Ecco perché l’ibrido è una tappa tecnologica cruciale: perché è praticamente certo che un po’ di pensiero ibrido debba salire a bordo anche delle automobili di chi un ibrido non lo comprerà mai.
Gli europei, invece, non paiono granché entusiasti dell’idea dell’ibrido. Hanno investito molto, e con successo, sul Diesel e l’ibrido a benzina, nella migliore delle ipotesi, potrebbe diventare paragonabile al motore Diesel per quanto riguarda i suoi dati di efficienza e di costo. Ma nonostante la crescita dell’offerta di veicoli ibridi, nella migliore delle ipotesi la quota sul mercato mondiale potrebbe arrivare al 2% nel 2010 e al 5% nel 2025: ancora molto poco.  Anche per questo, anziché puntare tutto su una tecnologia radicale come lo “Strong Hybrid” HSD di Toyota, Bosch punta a introdurre una gamma articolata di Micro, Mild e Strong Hybrids. I primi sono semplici “accessori” miranti a ridurre il consumo, come il sistema Start/Stop o l’alternatore a doppio voltaggio SPS, in grado di alimentare fino a 3 kW a 14V oppure fino a 8 kW a 42 V inviando l’eccedenza alla batteria, pensato per essere combinato con un sistema di recupero energia in frenata. Gli altri sono inseriti nella generale strategia del downsizing attualmente perseguita attraverso sovralimentazione e iniezione diretta.


Ma l’emotivo mercato americano non perdona chi indugia, così GM ha annunciato che metterà il produzione il P1/2 sviluppato con DaimlerChrysler e BMW già nel 2007, offrendolo in opzione su molti modelli in abbinamento al V8 5.7 HEMI per il quale promette economie del 25%, fino a 30 mpg (12,5 km/l) in autostrada. Inoltre la partnership sta sviluppando un sistema di trasmissione a variazione continua elettrica eCVT simile a quanto fa l’HSD, ma basata su una diversa meccanica. L’eCVT ha due modalità elettriche e quattro rapporti di trasmissione fissi: la combinazione di tutte le opzioni porta a 6 modalità di funzionamento: un CVT puramente elettrico, un CVT misto elettrico-endotermico e quattro rapporti fissi con i due motori elettrici pronti a sostenere quello endotermico in accelerazione o a recuperare energia in frenata.



Del P1/2, che sembra la risposta più seria all’HSD, sentiremo certamente parlare.Al di là dell’implementazione specifica, però, va detto che l’ibrido, per quanto destinato probabilmente a rimanere sempre minoritario nel mercato, non può ormai più essere considerato una tecnologia “alternativa”. Esso rappresenta legittimamente una terza opzione propulsiva, accanto ai motori Otto e Diesel – e senza considerare l’arrivo, che pare ormai imminente, dei motori policarburante in grado di bruciare efficientemente combustibili diversi. L’ibrido è uscito dal ghetto delle stranezze da salone ed è destinato a rimanere: questa consapevolezza ha lanciato una sfida tecnologica sia ai Costruttori, per quanto riguarda le tematiche progettuali e impiantistiche, che ai fornitori, per quanto riguarda quelle componentistiche.


Al momento, alla guida del gruppo è saldamente il Giappone, che produce non solo le vetture più a punto ma anche, di fatto, tutte le batterie ad alta capacità che fanno capo a società come Sanyo, Panasonic e Toshiba. Gli americani hanno fretta di raggiungerli: anche a costo di concentrarsi interamente sull’aspetto impiantistico e di trascurare la componentistica: non è un caso che fra i fornitori tecnologici della joint-venture GM-DaimlerChrysler-BMW non compaia alcun’azienda a stelle e strisce. Gli europei sono più preoccupati del monopolio tecnologico giapponese: in particolare, i tedeschi stanno spingendo l’industria nazionale a fare esperienze in modo da essere pronta entro pochi anni a fornire i modelli ibridi che un po’ tutte le Case hanno già annunciato.


Cosa c’è nel futuro dell’ibrido? Probabilmente questa tecnologia verrà sostituita dalle fuel cell prima di riuscire a diventare dominante: a quel punto, però, avrà già svolto il suo compito più importante. Che è quello di portare una piccola rivoluzione culturale nel modo di concepire l’automobile. L’idea di vettura ibrida, infatti, non “pesa” solo per le sue ricadute dirette, quanto piuttosto perché si inserisce in un contesto ben più ampio. Con il suo accento posto sull’efficienza, infatti, questo tipo di propulsione porta con sé tutta una serie di accorgimenti destinati a diventare sempre più diffusi, perché nessun Costruttore vorrà penalizzare troppo i veicoli “standard”. Accorgimenti che abbiamo cominciato a vedere sulla Prius, e che hanno già cominciato a diffondersi su auto del tutto diverse: si va dall’impiego massiccio di materiali leggeri, ai pneumatici a bassa resistenza al rotolamento, alla rinnovata cura per l’aerodinamica fino allo sfruttamento efficiente dell’energia da parte degli ausiliari. Ecco perché l’ibrido è una tappa tecnologica cruciale: perché è praticamente certo che un po’ di pensiero ibrido debba salire a bordo anche delle automobili di chi un ibrido non lo comprerà mai.

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