Tecnica: dossier ibride
Introduzione
In America, il mito per eccellenza è il
mito della conquista. Gli americani, gente spiccia e pratica,
sono
affezionati ai suoi simboli concreti: il rocket, simbolo della conquista
dello spazio in verticale, e il truck, simbolo della conquista dello
spazio in orizzontale.In comune, i rocket (razzi spaziali) e i truck (pick-up,
jeep e SUV) hanno il consumo esorbitante: una caratteristica
alla
quale anche gli americani, in questi anni di caro-petrolio, sono
diventati
sensibili. E dato che loro restano i più grandi consumatori del
pianeta,
le Case costruttrici hanno cercato di venire loro incontro.
Poiché oltreoceano il diesel continua
a non piacere (come le auto di lunghezza inferiore ai 5 metri e altezza
inferiore ai 2), l’unica risposta sensata è stata l’ibrido. Ecco perché
partiamo dagli Stati Uniti: perché quello è il mercato trainante per
la tecnologia dell’ibrido, e di conseguenza quello le cui esigenze
definiranno i trend e gli standard dei costruttori.Ma non solo. Anche se
ormai identificata con il Giappone, l’ibrido è una tecnologia nata
sotto la spinta della lungimirante amministrazione pubblica statunitense.
In
America, il mito per eccellenza è il mito della
conquista. Gli americani,
gente spiccia e pratica, sono affezionati ai suoi simboli concreti: il
rocket, simbolo della conquista dello spazio in verticale, e il truck,
simbolo della conquista dello spazio in orizzontale.In comune, i rocket
(razzi spaziali) e i truck (pick-up, jeep e SUV) hanno il consumo
esorbitante:
una caratteristica alla quale anche gli americani, in questi anni di
caro-petrolio,
sono diventati sensibili. E dato che loro restano i più grandi
consumatori
del pianeta, le Case costruttrici hanno cercato di venire loro incontro.
Poich&eacu
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oltreoceano il diesel continua a non piacere (come le auto di
lunghezza
inferiore ai 5 metri e altezza inferiore ai 2), l’unica risposta sensata
è stata l’ibrido. Ecco perché partiamo dagli Stati Uniti:
perché quello
è il mercato trainante per la tecnologia
dell’ibrido, e di conseguenza
quello le cui esigenze definiranno i trend e gli standard dei costruttori.Ma
non solo. Anche se ormai identificata con il Giappone, l’ibrido
è una
tecnologia nata sotto la spinta della lungimirante amministrazione pubblica
statunitense.
La storia
Già nel 1976, infatti, il Congresso varò la legge 94-413, “Ricerca e sviluppo
su veicoli elettrici e ibridi”, che mirava a sviluppare le batterie, i
motori elettrici e i sistemi di controllo. Le difficoltà nella
logica
di controllo si rivelano quasi insormontabili per i sistemi dell’epoca;
anche lo shock della prima crisi petrolifera viene superato e così devono
passare quasi venti anni perché l’amministrazione USA vari un progetto
concreto. Nel 1993, Bill Clinton promuove la “Partnership per una Nuova
Generazione di Veicoli” (PNGV) che pone l’obiettivo di un’auto pulita
capace di percorrere 80 miglia con un gallone di benzina (34 km/l). La
strada tecnologica è lasciata libera, ma i 3 prototipi che emergono dopo
diversi anni di lavoro (e un miliardo di dollari di fondi) sono tutti ibridi.
Il programma PGNV è riservato all’industria americana: Toyota, pur possedendo
fabbriche sul territorio USA, viene esclusa. Il presidente Eiji Toyoda,
per tutta risposta, lancia un progetto segreto chiamato G21 per creare
“l’auto globale per il 21° secolo”, con consumi ridotti del 50%. Il
progetto che darà vita alla Prius. Se la Prius I del 1997 è un buon
prodotto, la Prius II del 2003 è addirittura rivoluzionaria. E
arriva
al momento giusto: con la sua immagine tecnologica e il prezzo del greggio
in costante ascesa, fa impazzire gli Stati Uniti. Sfoggiata dai divi del
cinema, venduta in centinaia di migliaia di pezzi, viene eletta Auto dell’Anno
2004 e sancisce l’inarrestabile ascesa degli ibridi: tutti i costruttori
corrono ai ripari, perlomeno nelle dichiarazioni, in cui i programmi di
trazione ibrida si sprecano. Ma le onde, si sa, salgono e scendono: a inizio
luglio, Ford ha ritrattato la sua precedente previsione di allestire 250.000
ibridi entro il 2010. Bill Ford ha detto chiaro e tondo che non ha
senso investire così tanto denaro in una sola direzione, e per di più senza
ben conoscere le attitudini del mercato. Ciò non significa certo che
Ford, né nessun altro Costruttore, smetterà di lavorare in questa direzione;
solo che per ridurre i consumi darà precedenza a tecnologie meglio conosciute
e più sicure: dal Diesel pulito ai nuovi motori a benzina turbo-iniezione
diretta. Del resto a Ford mancano due tasselli fondamentali: un fornitore
non giapponese di batterie ad alta capacità e soprattutto una piattaforma
ibrida a trazione posteriore con cui equipaggiare i suoi vendutissimi trucks
(oltre il 60% delle vendite di Ford in patria). La tecnologia ibrida
si compone infatti di diversi tasselli: nessuno dei quali è tecnologicamente
proibitivo, ma che diventa un bel rompicapo assemblare nel modo migliore.
Toyota ci è riuscita in modo esemplare con il suo HSD, forte di una solidità
finanziaria senza eguali e della mancanza di fretta. Ora ha omologato
tutti i suoi ibridi secondo la rigidissima normativa californiana SULEV,
e i costruttori americani, che negli scorsi anni hanno puntato tutto sullo
sviluppo delle fuel cell, non possono rischiare di essere messi fuori gioco.
Purtroppo per loro, gli investimenti richiesti per lo sviluppo di una
piattaforma
ibrida restano però colossali. Per recuperare il ritardo accumulato sui
giapponesi, sono sorte cordate di una trasversalità senza precedenti, come
quella GM-DaimlerChrysler-Bmw (ma GM si aspetta di raccogliere altre adesioni!).
Altri, come Renault e Nissan, hanno acquistato direttamente tecnologia
Toyota; Ford, dopo aver portato avanti autonomamente lo sviluppo
di un sistema ibrido, ha scoperto che le somiglianze con quello Toyota
la avrebbero messa a rischio di causa giudiziaria; decidendo a quel punto
di acquistare la licenza d’uso e integrarla con i brevetti nel frattempo
depositati.Insomma: l’ibrido costa e la prudenza è d’obbligo: gli
analisti hanno già rivisto al ribasso le loro previsioni di penetrazione
sul mercato USA, dopo averle riviste al rialzo a seguito dell’imprevisto
successo della Prius. Il fatto è che gli americani, per quanto emotivi,
sono molto attaccati alle tradizioni: e le auto grandi e grosse
sono un punto cardinale della loro idea di progresso e di libertà. Il fronte
pro-ibrido trova perciò una accanita resistenza da parte di chi si è messo
a fare attentamente i calcoli, accorgendosi che i vantaggi dell’ibrido
non sono poi così decisivi nelle grandi aree extraurbane dominate dai trucks.
Molti acquirenti sono rimasti delusi nel trovare consumi lontanissimi da
quelli dichiarati, e ormai su tutte le brochure e i siti web compaiono
raccomandazioni che spiegano quale stile di guida adottare per ottenere
i consumi previsti, e perché questi possono variare.
Già nel 1976, infatti, il Congresso
varò la legge 94-413, “Ricerca e sviluppo su veicoli elettrici e
ibridi”,
che mirava a sviluppare le batterie, i motori elettrici e i sistemi di
controllo. Le difficoltà nella logica di controllo si
rivelano quasi
insormontabili per i sistemi dell’epoca; anche lo shock della
prima
crisi petrolifera viene superato e così devono passare quasi venti anni
perché l’amministrazione USA vari un progetto concreto.
Nel 1993, Bill
Clinton promuove la “Partnership per una Nuova Generazione di
Veicoli”
(PNGV) che pone l’obiettivo di un’auto pulita capace di
percorrere
80 miglia con un gallone di benzina (34 km/l). La strada tecnologica è
lasciata libera, ma i 3 prototipi che emergono dopo diversi anni di lavoro
(e un miliardo di dollari di fondi) sono tutti ibridi.
Il
programma PGNV è riservato all’industria americana: Toyota, pur
possedendo
fabbriche sul territorio USA, viene esclusa. Il presidente Eiji Toyoda,
per tutta risposta, lancia un progetto segreto chiamato G21 per creare
“l’auto globale per il 21° secolo”, con consumi ridotti
del 50%. Il
progetto che darà vita alla Prius. Se la Prius I del 1997
è un buon
prodotto, la Prius II del 2003 è addirittura
rivoluzionaria. E arriva
al momento giusto: con la sua immagine tecnologica e il prezzo del greggio
in costante ascesa, fa impazzire gli Stati Uniti. Sfoggiata dai divi del
cinema, venduta in centinaia di migliaia di pezzi, viene eletta Auto
dell’Anno
2004 e sancisce l’inarrestabile ascesa degli ibridi: tutti i costruttori
corrono ai ripari, perlomeno nelle dichiarazioni, in cui i programmi di
trazione ibrida si sprecano. Ma le onde, si sa, salgono e scendono: a inizio
luglio, Ford ha ritrattato la sua precedente previsione di allestire 250.000
ibridi entro il 2010. Bill Ford ha detto chiaro e tondo che non ha
senso investire così tanto denaro in una sola direzione, e per di
più senza
ben conoscere le attitudini del mercato. Ciò non significa certo che
Ford, né nessun altro Costruttore, smetterà di lavorare in questa
direzione;
solo che per ridurre i consumi darà precedenza a tecnologie meglio
conosciute
e più sicure: dal Diesel pulito ai nuovi motori a benzina turbo-iniezione
diretta. Del resto a Ford mancano due tasselli fondamentali: un fornitore
non giapponese di batterie ad alta capacità e soprattutto una
piattaforma
ibrida a trazione posteriore con cui equipaggiare i suoi vendutissimi trucks
(oltre il 60% delle vendite di Ford in patria). La tecnologia ibrida
si compone infatti di diversi tasselli: nessuno dei quali è
tecnologicamente
proibitivo, ma che diventa un bel rompicapo assemblare nel modo migliore.
Toyota ci è riuscita in modo esemplare con il suo HSD, forte di una
solidità
finanziaria senza eguali e della mancanza di fretta. Ora ha omologato
tutti i suoi ibridi secondo la rigidissima normativa californiana SULEV,
e i costruttori americani, che negli scorsi anni hanno puntato tutto sullo
sviluppo delle fuel cell, non possono rischiare di essere messi fuori gioco.
Purtroppo
per loro, gli investimenti richiesti per lo sviluppo di una piattaforma
ibrida restano però colossali. Per recuperare il ritardo accumulato sui
giapponesi, sono sorte cordate di una trasversalità senza precedenti,
come
quella GM-DaimlerChrysler-Bmw (ma GM si aspetta di raccogliere altre adesioni!).
Altri, come Renault e Nissan, hanno acquistato direttamente tecnologia
Toyota; Ford, dopo aver portato avanti autonomamente lo sviluppo
di un sistema ibrido, ha scoperto che le somiglianze con quello Toyota
la avrebbero messa a rischio di causa giudiziaria; decidendo a quel punto
di acquistare la licenza d’uso e integrarla con i brevetti nel frattempo
depositati.Insomma: l’ibrido costa e la prudenza è
d’obbligo: gli
analisti hanno già rivisto al ribasso le loro previsioni di penetrazione
sul mercato USA, dopo averle riviste al rialzo a seguito dell’imprevisto
successo della Prius. Il fatto è che gli americani, per quanto
emotivi,
sono molto attaccati alle tradizioni: e le auto grandi e grosse
sono un punto cardinale della loro idea di progresso e di libertà. Il
fronte
pro-ibrido trova perciò una accanita resistenza da parte di chi si
è messo
a fare attentamente i calcoli, accorgendosi che i vantaggi dell’ibrido
non sono poi così decisivi nelle grandi aree extraurbane dominate dai
trucks.
Molti acquirenti sono rimasti delusi nel trovare consumi lontanissimi da
quelli dichiarati, e ormai su tutte le brochure e i siti web compaiono
raccomandazioni che spiegano quale stile di guida adottare per ottenere
i consumi previsti, e perché questi possono variare.
I marchi tedeschi...
Quanto vale la tecnologia dell’ibrido? E come mai persino Porsche
ha annunciato di avere in programma per il 2008-2010 una Cayenne
ibrida
– l’equivalente di rinunciare a zuccherare il caffè dopo un cenone di
Natale? Proprio la Cayenne ibrida è un buon punto di partenza per
spiegare
le ragioni dietro a questi veicoli. Il ricco mercato statunitense,
dominato dai trucks – veicoli illogici da un punto di vista razionale
– ripone negli ibridi speranze di buona coscienza ecologica altrettanto
illogiche. In USA è diventato celebre il paradosso secondo il quale portare
il consumo di una SUV da 10 a 11 mpg (miglia per gallone, un analogo dei
nostri km/l) fa risparmiare più benzina che abbatterlo da 30 a 40 mpg su
una berlina. È vero? Verissimo, proprio perché le SUV sono così assetati
di benzina. Basta fare i conti su distanze sufficientemente elevate:
in 100.000 km, la SUV da 11 mpg risparmia oltre 2.500 litri di carburante,
contro i 2.450 della berlina da 40 mpg. Peccato che su quella distanza
il primo ne succhi oltre 21.000 litri, contro i nemmeno 6.000 richiesti
dalla seconda.
Così, mentre aspettiamo che le highways si popolino di Cayenne da 11
o 12 mpg, possiamo cominciare a capire come mai un’azienda tedesca
sia così ostile alle motorizzazioni diesel, che consentirebbero di ottenere
consumi anche migliori. Tanto per cominciare, l’ibrido rappresenta
nell’immaginario collettivo il vero stato dell’arte della tecnologia,
con cui Porsche ha sempre tenuto ad identificarsi. In secondo luogo,
l’ibrido è una forma di propulsione già accettata da un mercato fondamentale
come quello USA, mentre non altrettanto si può dire del diesel. Infine,
a Weissach sono attaccati in modo quasi ossessivo alle tradizioni: e nella
storia di Porsche il gasolio non ha lasciato traccia, ma l’ibrido sì.
Dobbiamo tornare addirittura al 1898, quando Ferdinand Porsche, ventitreenne
ingegnere di belle speranze, progetta e realizza la sua prima automobile,
la “Poltrona Elettrica Lohne”. Si tratta di un prototipo, anche innovativo
(è il primo esempio di auto a trazione anteriore), ma forse a causa del
nome non particolarmente beneaugurate viene modificato, nel 1902, nella
“Lohne Mista”: un ibrido in cui un motore a scoppio alimenta, attraverso
un generatore, due motori elettrici collegati alle ruote. Ci sono
anche delle batterie, che consentono alla vetturetta un’autonomia di una
cinquantina di km. Di quei primi esperimenti la Cayenne non conserverà
nulla: sarà un ibrido parallelo, basato con tutta probabilità su tecnologia
Audi, dopo il recente ingresso di Porsche nel capitale VW. Il fatto
che inizialmente Porsche avesse intavolato trattative con Toyota la dice
però lunga sul diverso grado di sviluppo dei giapponesi rispetto al resto
del mondo. Con l’HSD, Toyota ha messo a punto la combinazione motore
endotermico-motore
elettrico-trasmissione sulla carta più efficiente. Uno schema esteso ora
alla Lexus RX 400h e alla Ford Explorer, per ottenere una “transaxle ibrida”
a quattro ruote motrici.
La meravigliosa semplicità dell’HSD, un sistema a planetario in cui convergono
motore endotermico e motore elettrico, è di consentire con grande semplicità
meccanica un funzionamento di tipo sia serie che parallelo, oltre a svolgere
la funzione di cambio a variazione continua (CVT). Ma per quanto questa
disposizione degli organi meccanici sia particolarmente azzeccata, gli
attuali strumenti di sviluppo consentono di mettere a punto soluzioni
alternative
altrettanto funzionali. Una di queste dovrebbe esordire sulla Audi Q7
ibrida vista a Francoforte, che realizza la stessa strategia della
RX 400h con una meccanica più tradizionale. Audi sfrutta il suo vantaggio
nello studio dell’iniezione diretta adottando un evoluto V8 4.2 FSI da
350 CV e 440 Nm, affiancato da un motore elettrico da 200 Nm integrato
nella trasmissione (è lo schema Bosch, che ha appena lanciato una partnership
con Getrag per realizzare questa struttura su un cambio a doppia frizione
DSG). Nonostante il peso più elevato la presenza delle batterie, l’accelerazione
0-100 migliora di 0,6 secondi, la ripresa 80-120 addirittura 2 secondi
(il 25%) in meno e il consumo scende del 13% nel ciclo combinato (12 l/100
km), del 20% nel ciclo urbano. Il motore elettrico basta a spingere
la Q7 fino a 30 km/h. Sempre a Francoforte, Bmw ha presentato una X3
ibrida.
Durante le Olimpiadi Invernali, a Torino hanno invece fatto servizio navetta
due minibus Iveco equipaggiati con diesel ibridi co-sviluppati con Bosch.
Mercedes, nonostante l’impegno profuso nell’idrogeno, ha annunciato
già al Salone di Detroit 2005 addirittura due versioni ibride della Classe
S. Il sistema è incentrato sull’unità P1/2 sviluppata con Bosch, dotata
sulla carta di notevoli efficienza e compattezza. La S ibrida dovrebbe
anche essere il primo ibrido Diesel su un’automobile. Anche PSA lavora
su questa soluzione, che offre prestazioni ottimali ma è più difficile
da mettere a punto per le elevate inerzie del motore diesel, e soprattutto
costosissima. Mercedes comunque ci crede e pare pronta a offrire un V8
CDI da 260 Cv (191 kW) e 560 Nm di coppia accoppiato a due motori elettrici
che assommano 70 Cv (50 kW). La poderosa coppia risultante garantisce un’
eccellente
7,6 secondi nello 0-100, mentre la batteria, una Ni-MH da 1,9 kWh (altra
scelta decisamente costosa) è alloggiata sotto il bagagliaio. Si tratta
di un “full hybrid”, capace di partire in elettrico e di frenata
rigenerativa, con un’architettura relativamente semplice: pur non avendo
il planetario dell’HSD Toyota, la Classe S fa a meno del convertitore
di coppia grazie all’abbinamento della trasmissione automatica 7G-Tronic
con il modulo ibrido P1/2, che integra in modo molto compatto i motori
elettrici lasciando invariato lo spazio interno. Tale abbinamento offre
grande flessibilità: l’efficienza del motore migliora anche a velocità
costante, perché il sistema P1/2 consente di far lavorare il diesel nel
range di rendimento ottimale. Il consumo, stando a Mercedes, si riduce
del 15-25% a seconda del ciclo di riferimento: vale circa 7 litri per100
km (34 mpg).
Quanto
vale la tecnologia dell’ibrido? E come mai persino Porsche ha
annunciato
di avere in programma per il 2008-2010 una Cayenne ibrida
– l’equivalente
di rinunciare a zuccherare il caffè dopo un cenone di Natale?
Proprio
la Cayenne ibrida è un buon punto di partenza per spiegare le ragioni
dietro
a questi veicoli. Il ricco mercato statunitense, dominato dai trucks
– veicoli illogici da un punto di vista razionale – ripone negli
ibridi
speranze di buona coscienza ecologica altrettanto illogiche. In USA è
diventato
celebre il paradosso secondo il quale portare il consumo di una SUV da
10 a 11 mpg (miglia per gallone, un analogo dei nostri km/l) fa risparmiare
più benzina che abbatterlo da 30 a 40 mpg su una berlina. È vero?
Verissimo,
proprio perché le SUV sono così assetati di benzina.
Basta fare i conti
su distanze sufficientemente elevate: in 100.000 km, la SUV da 11 mpg risparmia
oltre 2.500 litri di carburante, contro i 2.450 della berlina da 40 mpg.
Peccato che su quella distanza il primo ne succhi oltre 21.000 litri, contro
i nemmeno 6.000 richiesti dalla seconda.
Così, mentre aspettiamo che le highways
si popolino di Cayenne da 11 o 12 mpg, possiamo cominciare a
capire
come mai un’azienda tedesca sia così ostile alle motorizzazioni
diesel,
che consentirebbero di ottenere consumi anche migliori. Tanto per cominciare,
l’ibrido rappresenta nell’immaginario collettivo il vero stato
dell’arte
della tecnologia, con cui Porsche ha sempre tenuto ad identificarsi.
In secondo luogo, l’ibrido è una forma di propulsione già
accettata da
un mercato fondamentale come quello USA, mentre non altrettanto si può
dire del diesel. Infine, a Weissach sono attaccati in modo quasi ossessivo
alle tradizioni: e nella storia di Porsche il gasolio non ha lasciato traccia,
ma l’ibrido sì. Dobbiamo tornare addirittura al 1898, quando
Ferdinand
Porsche, ventitreenne ingegnere di belle speranze, progetta e realizza
la sua prima automobile, la “Poltrona Elettrica Lohne”. Si
tratta
di un prototipo, anche innovativo (è il primo esempio di auto a trazione
anteriore), ma forse a causa del nome non particolarmente beneaugurate
viene modificato, nel 1902, nella “Lohne Mista”: un ibrido in cui un
motore a scoppio alimenta, attraverso un generatore, due motori elettrici
collegati alle ruote. Ci sono anche delle batterie, che consentono
alla vetturetta un’autonomia di una cinquantina di km. Di quei primi
esperimenti
la Cayenne non conserverà nulla: sarà un ibrido parallelo, basato
con tutta
probabilità su tecnologia Audi, dopo il recente ingresso di Porsche nel
capitale VW. Il fatto che inizialmente Porsche avesse intavolato trattative
con Toyota la dice però lunga sul diverso grado di sviluppo dei
giapponesi
rispetto al resto del mondo. Con l’HSD, Toyota ha messo a punto la
combinazione
motore endotermico-motore elettrico-trasmissione sulla carta più
efficiente.
Uno schema esteso ora alla Lexus RX 400h e alla Ford Explorer, per ottenere
una “transaxle ibrida” a quattro ruote motrici.
La
meravigliosa semplicità dell’HSD, un sistema a planetario in cui
convergono
motore endotermico e motore elettrico, è di consentire con grande
semplicità
meccanica un funzionamento di tipo sia serie che parallelo, oltre a svolgere
la funzione di cambio a variazione continua (CVT). Ma per quanto questa
disposizione degli organi meccanici sia particolarmente azzeccata, gli
attuali strumenti di sviluppo consentono di mettere a punto soluzioni
alternative
altrettanto funzionali. Una di queste dovrebbe esordire sulla Audi Q7
ibrida vista a Francoforte, che realizza la stessa strategia della
RX 400h con una meccanica più tradizionale. Audi sfrutta il suo
vantaggio
nello studio dell’iniezione diretta adottando un evoluto V8 4.2 FSI da
350 CV e 440 Nm, affiancato da un motore elettrico da 200 Nm integrato
nella trasmissione (è lo schema Bosch, che ha appena lanciato una
partnership
con Getrag per realizzare questa struttura su un cambio a doppia frizione
DSG). Nonostante il peso più elevato la presenza delle batterie,
l’accelerazione
0-100 migliora di 0,6 secondi, la ripresa 80-120 addirittura 2 secondi
(il 25%) in meno e il consumo scende del 13% nel ciclo combinato (12 l/100
km), del 20% nel ciclo urbano. Il motore elettrico basta a spingere
la Q7 fino a 30 km/h. Sempre a Francoforte, Bmw ha presentato una X3
ibrida.
Durante le Olimpiadi Invernali, a Torino
hanno invece fatto servizio navetta due minibus Iveco equipaggiati con
diesel ibridi co-sviluppati con Bosch. Mercedes, nonostante l’impegno
profuso nell’idrogeno, ha annunciato già al Salone di Detroit 2005
addirittura
due versioni ibride della Classe S. Il sistema è incentrato
sull’unità
P1/2 sviluppata con Bosch, dotata sulla carta di notevoli efficienza e
compattezza. La S ibrida dovrebbe anche essere il primo ibrido Diesel su
un’automobile. Anche PSA lavora su questa soluzione, che offre prestazioni
ottimali ma è più difficile da mettere a punto per le elevate
inerzie del
motore diesel, e soprattutto costosissima. Mercedes comunque ci crede e
pare pronta a offrire un V8 CDI da 260 Cv (191 kW) e 560 Nm di coppia accoppiato
a due motori elettrici che assommano 70 Cv (50 kW). La poderosa coppia
risultante garantisce un’eccellente 7,6 secondi nello 0-100, mentre la
batteria, una Ni-MH da 1,9 kWh (altra scelta decisamente costosa) è
alloggiata
sotto il bagagliaio. Si tratta di un “full hybrid”, capace di
partire in elettrico e di frenata rigenerativa, con un’architettura
relativamente
semplice: pur non avendo il planetario dell’HSD Toyota, la Classe S fa
a meno del convertitore di coppia grazie all’abbinamento della
trasmissione
automatica 7G-Tronic con il modulo ibrido P1/2, che integra in modo
molto compatto i motori elettrici lasciando invariato lo spazio interno.
Tale abbinamento offre grande flessibilità: l’efficienza del
motore migliora
anche a velocità costante, perché il sistema P1/2 consente di far
lavorare
il diesel nel range di rendimento ottimale. Il consumo, stando a Mercedes,
si riduce del 15-25% a seconda del ciclo di riferimento: vale circa 7 litri
per100 km (34 mpg).
In Giappone
Tornando al Giappone, sono interessanti le scelte di Subaru, una Casa
piccola ma che dispone delle considerevoli risorse del colossale gruppo
Fuji Heavy Industries. A Francoforte si è vista la B5-TPH,
dotata
di due piccoli motori elettrici da 10 kW interposti tra il 4 cilindri boxer
turbocompresso e la trasmissione automatica. I motori elettrici
intervengono
soprattutto alle basse velocità, quando il turbo è inattivo, e lo sostengono
fino ai medi. Inoltre, come sulla Prius, si è scelto di intervenire anche
sul motore endotermico, facendogli seguire non il ciclo Otto ma quello
Atkinson – come sugli ibridi Toyota e Ford – che prevede di tenere aperta
l’ammissione durante parte del ciclo di compressione per differenziare
il rapporto di espansione da quello di compressione ed elevare il lavoro
raccolto dal motore senza incorrere nella detonazione. Questo ciclo
riduce le perdite di pompaggio, ma limita anche il volume di aria aspirata:
la sovralimentazione, tuttavia, permette di ovviare a questo inconveniente
e il rendimento termodinamico può salire addirittura del 30% rispetto ad
un motore convenzionale (5,9 l/100 km) senza che le caratteristiche
prestazionali
associate a Subaru vengano penalizzate (la B5-TPH ha 256 Cv e 343 Nm).
Si parla in questo caso di ciclo Miller, che richiederebbe in realtà
un compressore, poiché la fasatura Atkinson riduce anche le prestazioni
della turbina; tuttavia Subaru ha progettato una girante specifica da abbinare
al TPH.
Questo da solo non basta a garantire una buona dinamica di risposta ai
bassi, ma si sposa perfettamente con l’introduzione dei motori elettrici
di supporto. La B5-TPH è un ibrido leggero, simile alla prima Honda Civic
IMA: non può funzionare in modalità solo elettrica, ma mostra i risultati
che è possibile raggiungere con costi relativamente bassi. Il TPH
richiede
anche batterie meno ingombranti, tanto più che la Fuji è avanti nello sviluppo
di batterie: sembra imminente l’introduzione della batteria al Manganese
e ioni di Litio sviluppata dalla consociata NEC, mentre proseguono gli
studi sul supercondensatore al litio (si veda il box dedicato). Notevole
anche il risultato ottenuto con i motori elettrici, che con soli 10 kW
sono in grado di erogare ben 150 Nm di coppia (la nuova Civic IMA dispone
di motori da 15 kW con 103 Nm di coppia).
Tornando
al Giappone, sono interessanti le scelte di Subaru, una Casa piccola
ma che dispone delle considerevoli risorse del colossale gruppo Fuji Heavy
Industries. A Francoforte si è vista la B5-TPH, dotata
di due piccoli
motori elettrici da 10 kW interposti tra il 4 cilindri boxer turbocompresso
e la trasmissione automatica. I motori elettrici intervengono
soprattutto
alle basse velocità, quando il turbo è inattivo, e lo sostengono
fino ai
medi. Inoltre, come sulla Prius, si è scelto di intervenire anche sul
motore
endotermico, facendogli seguire non il ciclo Otto ma quello Atkinson –
come sugli ibridi Toyota e Ford – che prevede di tenere aperta
l’ammissione
durante parte del ciclo di compressione per differenziare il rapporto di
espansione da quello di compressione ed elevare il lavoro raccolto dal
motore senza incorrere nella detonazione. Questo ciclo riduce le perdite
di pompaggio, ma limita anche il volume di aria aspirata: la sovralimentazione,
tuttavia, permette di ovviare a questo inconveniente e il rendimento
termodinamico
può salire addirittura del 30% rispetto ad un motore convenzionale (5,9
l/100 km) senza che le caratteristiche prestazionali associate a Subaru
vengano penalizzate (la B5-TPH ha 256 Cv e 343 Nm). Si parla in questo
caso di ciclo Miller, che richiederebbe in realtà un compressore,
poiché
la fasatura Atkinson riduce anche le prestazioni della turbina; tuttavia
Subaru ha progettato una girante specifica da abbinare al TPH.
Que
sto
da solo non basta a garantire una buona dinamica di risposta ai bassi,
ma si sposa perfettamente con l’introduzione dei motori elettrici di
supporto.
La B5-TPH è un ibrido leggero, simile alla prima Honda Civic IMA: non
può
funzionare in modalità solo elettrica, ma mostra i risultati che
è possibile
raggiungere con costi relativamente bassi. Il TPH richiede anche
batterie
meno ingombranti, tanto più che la Fuji è avanti nello sviluppo
di batterie:
sembra imminente l’introduzione della batteria al Manganese e ioni di
Litio sviluppata dalla consociata NEC, mentre proseguono gli studi sul
supercondensatore al litio (si veda il box dedicato). Notevole anche il
risultato ottenuto con i motori elettrici, che con soli 10 kW sono in grado
di erogare ben 150 Nm di coppia (la nuova Civic IMA dispone di motori da
15 kW con 103 Nm di coppia).
Tre scuole differenti...
Si sta insomma delineando un confronto tra tre scuole tecniche:
giapponese,
statunitense ed europea. In realtà la recente ondata di accordi ha
scardinato tutto: Toyota fornirà il suo HSD a Renault-Nisssan e Ford,
mentre Bmw, GM e DaimlerChrysler hanno annunciato che uniranno le loro
forze per recuperare il terreno perduto e ammortizzare gli investimenti
necessari. Non è ancora chiaro se Toyota riesca a guadagnare sugli
ibridi che vende, mentre è certo che Ford venda i suoi Explorer in perdita.
C’è molta incertezza riguardo al mercato: nessuno sa dire quanto sia duratura
la richiesta e c’è chi pensa che Toyota abbia già saturato da sola la
domanda, riuscendo forse a raggiungere il punto di pareggio: per gli altri,
c’è solo da perdere denaro. È fuori di dubbio che, Prius e Civic IMA a
parte, il posizionamento della totalità delle vetture ibride è nell’alto
di gamma: tutti hanno presentato modelli grandi e lussuosi, più adatti
ad una tecnologia costosa e ancora da “intenditori”. Lo schema Mercedes
è il primo nato in funzione di motori potenti, ma l’HSD, declinabile dalla
Prius alla Lexus LS600h, resta imbattibile per flessibilità. Toyota
è risultata imbattibile quanto a razionalità: l’HSD non è del resto una
rosa fiorita nel deserto energetico, ma il frutto di un nuovo modo di pensare
introdotto con convinzione dai manager giapponesi. Come aveva fatto negli
anni Sessanta per la qualità, Toyota ha introdotto l’idea di eco-compatibilità
e sostenibilità in tutti i settori della progettazione. Il risultato
è una cura certosina che non tralascia nulla di quanto sta tra l’architettura
e la costruzione del veicolo: per esempio, i suoi nuovi stabilimenti di
Torrance, California, hanno ottenuto la certificazione ambientale di massimo
livello dall’Ente statunitense che se ne occupa per gli edifici. Il complesso
è costruito per il 95% con materiali riciclati, e dispone di uno dei più
grandi impianti a pannelli solari del Nord America.
Gli americani hanno invece puntato su un cavallo troppo giovane, le fuel
cell. L’amministrazione USA, tuttavia, ha riconosciuto con grande
equanimità che gli ibridi possono ridurre l’inquinamento e l’insaziabile
fame di greggio del Paese, e li sostengono vigorosamente: esiste un sito
del governo (www.fueleconomy.gov) che elenca le auto di questo tipo e ne
promuove l’utilizzo. La forza degli americani sta però nell’abilità
di coniugare le iniziative ecologiche con il senso degli affari, come emerge
chiaramente dagli standard di riduzione dei consumi CAFE (Corporate Average
Fuel Economy, Risparmio di Carburante Medio del Costruttore). Si tratta
di regole che impongono ai Costruttori non il consumo dei singoli modelli,
ma quello medio del parco venduto, che non può essere superiore a 27.5
mpg (11,7 km/l). Ciò spinge i Costruttori che vogliono vendere auto di
lusso, generalmente remunerative ma anche assetate, a “pareggiare i conti”
producendo e vendendo anche molte auto parsimoniose. Per esempio, per ogni
Prius (25 km/l) Toyota acquisisce il diritto di vendere quattro RX da 8,5
km/l.
Si
sta insomma delineando un confronto tra tre scuole tecniche: giapponese,
statunitense ed europea. In realtà la recente ondata di accordi
ha
scardinato tutto: Toyota fornirà il suo HSD a Renault-Nisssan e
Ford,
mentre Bmw, GM e DaimlerChrysler hanno annunciato che uniranno le loro
forze per recuperare il terreno perduto e ammortizzare gli investimenti
necessari. Non è ancora chiaro se Toyota riesca a guadagnare
sugli
ibridi che vende, mentre è certo che Ford venda i suoi Explorer in
perdita.
C’è molta incertezza riguardo al mercato: nessuno sa dire quanto
sia duratura
la richiesta e c’è chi pensa che Toyota abbia già saturato
da sola la
domanda, riuscendo forse a raggiungere il punto di pareggio: per gli altri,
c’è solo da perdere denaro. È fuori di dubbio che, Prius e
Civic IMA a
parte, il posizionamento della totalità delle vetture ibride è
nell’alto
di gamma: tutti hanno presentato modelli grandi e lussuosi, più adatti
ad una tecnologia costosa e ancora da “intenditori”. Lo
schema Mercedes
è il primo nato in funzione di motori potenti, ma l’HSD,
declinabile dalla
Prius alla Lexus LS600h, resta imbattibile per flessibilità. Toyota
è risultata imbattibile quanto a razionalità: l’HSD non
è del resto una
rosa fiorita nel deserto energetico, ma il frutto di un nuovo modo di pensare
introdotto con convinzione dai manager giapponesi. Come aveva fatto negli
anni Sessanta per la qualità, Toyota ha introdotto l’idea di
eco-compatibilità
e sostenibilità in tutti i settori della progettazione. Il
risultato
è una cura certosina che non tralascia nulla di quanto sta tra
l’architettura
e la costruzione del veicolo: per esempio, i suoi nuovi stabilimenti di
Torrance, California, hanno ottenuto la certificazione ambientale di massimo
livello dall’Ente statunitense che se ne occupa per gli edifici. Il
complesso
è costruito per il 95% con materiali riciclati, e dispone di uno dei
più
grandi impianti a pannelli solari del Nord America.
Gli
americani hanno invece puntato su un cavallo troppo giovane, le fuel cell.
L’amministrazione USA, tuttavia, ha riconosciuto con grande
equanimità
che gli ibridi possono ridurre l’inquinamento e l’insaziabile fame
di
greggio del Paese, e li sostengono vigorosamente: esiste un sito del governo
(www.fueleconomy.gov) che elenca le auto di questo tipo e ne promuove
l’utilizzo.
La forza degli americani sta però nell’abilità di
coniugare le iniziative
ecologiche con il senso degli affari, come emerge chiaramente dagli standard
di riduzione dei consumi CAFE (Corporate Average Fuel Economy, Risparmio
di Carburante Medio del Costruttore). Si tratta di regole che impongono
ai Costruttori non il consumo dei singoli modelli, ma quello medio del
parco venduto, che non può essere superiore a 27.5 mpg (11,7 km/l).
Ciò
spinge i Costruttori che vogliono vendere auto di lusso, generalmente
remunerative
ma anche assetate, a “pareggiare i conti” producendo e vendendo
anche
molte auto parsimoniose. Per esempio, per ogni Prius (25 km/l) Toyota acquisisce
il diritto di vendere quattro RX da 8,5 km/l.
Il futuro
Gli europei, invece, non paiono granché entusiasti dell’idea dell’ibrido.
Hanno investito molto, e con successo, sul Diesel e l’ibrido a benzina,
nella migliore delle ipotesi, potrebbe diventare paragonabile al motore
Diesel per quanto riguarda i suoi dati di efficienza e di costo. Ma nonostante
la crescita dell’offerta di veicoli ibridi, nella migliore delle ipotesi
la quota sul mercato mondiale potrebbe arrivare al 2% nel 2010 e al 5%
nel 2025: ancora molto poco. Anche per questo, anziché puntare
tutto su una tecnologia radicale come lo “Strong Hybrid” HSD di Toyota,
Bosch punta a introdurre una gamma articolata di Micro, Mild e Strong Hybrids.
I primi sono semplici “accessori” miranti a ridurre il consumo, come
il sistema Start/Stop o l’alternatore a doppio voltaggio SPS, in grado
di alimentare fino a 3 kW a 14V oppure fino a 8 kW a 42 V inviando l’eccedenza
alla batteria, pensato per essere combinato con un sistema di recupero
energia in frenata. Gli altri sono inseriti nella generale strategia del
downsizing attualmente perseguita attraverso sovralimentazione e iniezione
diretta.
Ma l’emotivo mercato americano non perdona chi indugia, così GM ha annunciato
che metterà il produzione il P1/2 sviluppato con DaimlerChrysler e BMW
già nel 2007, offrendolo in opzione su molti modelli in abbinamento al
V8 5.7 HEMI per il quale promette economie del 25%, fino a 30 mpg (12,5
km/l) in autostrada. Inoltre la partnership sta sviluppando un sistema
di trasmissione a variazione continua elettrica eCVT simile a quanto fa
l’HSD, ma basata su una diversa meccanica. L’eCVT ha due modalità
elettriche e quattro rapporti di trasmissione fissi: la combinazione di
tutte le opzioni porta a 6 modalità di funzionamento: un CVT puramente
elettrico, un CVT misto elettrico-endotermico e quattro rapporti fissi
con i due motori elettrici pronti a sostenere quello endotermico in
accelerazione
o a recuperare energia in frenata.
Del P1/2, che sembra la risposta più seria all’HSD, sentiremo certamente
parlare.Al di là dell’implementazione specifica, però, va detto che
l’ibrido, per quanto destinato probabilmente a rimanere sempre minoritario
nel mercato, non può ormai più essere considerato una tecnologia “alternativa”.
Esso rappresenta legittimamente una terza opzione propulsiva,
accanto
ai motori Otto e Diesel – e senza considerare l’arrivo, che
pare
ormai imminente, dei motori policarburante in grado di bruciare efficientemente
combustibili diversi. L’ibrido è uscito dal ghetto delle stranezze da
salone ed è destinato a rimanere: questa consapevolezza ha lanciato una
sfida tecnologica sia ai Costruttori, per quanto riguarda le tematiche
progettuali e impiantistiche, che ai fornitori, per quanto riguarda quelle
componentistiche.
Al momento, alla guida del gruppo è saldamente il Giappone, che produce
non solo le vetture più a punto ma anche, di fatto, tutte le batterie ad
alta capacità che fanno capo a società come Sanyo, Panasonic e Toshiba.
Gli americani hanno fretta di raggiungerli: anche a costo di concentrarsi
interamente sull’aspetto impiantistico e di trascurare la componentistica:
non è un caso che fra i fornitori tecnologici della joint-venture
GM-DaimlerChrysler-BMW
non compaia alcun’azienda a stelle e strisce. Gli europei sono più preoccupati
del monopolio tecnologico giapponese: in particolare, i tedeschi stanno
spingendo l’industria nazionale a fare esperienze in modo da essere pronta
entro pochi anni a fornire i modelli ibridi che un po’ tutte le Case hanno
già annunciato.
Cosa c’è nel futuro dell’ibrido? Probabilmente questa tecnologia verrà
sostituita dalle fuel cell prima di riuscire a diventare dominante:
a quel punto, però, avrà già svolto il suo compito più importante. Che
è quello di portare una piccola rivoluzione culturale nel modo di concepire
l’automobile. L’idea di vettura ibrida, infatti, non “pesa” solo per
le sue ricadute dirette, quanto piuttosto perché si inserisce in un contesto
ben più ampio. Con il suo accento posto sull’efficienza, infatti, questo
tipo di propulsione porta con sé tutta una serie di accorgimenti destinati
a diventare sempre più diffusi, perché nessun Costruttore vorrà penalizzare
troppo i veicoli “standard”. Accorgimenti che abbiamo cominciato a vedere
sulla Prius, e che hanno già cominciato a diffondersi su auto del tutto
diverse: si va dall’impiego massiccio di materiali leggeri, ai pneumatici
a bassa resistenza al rotolamento, alla rinnovata cura per l’aerodinamica
fino allo sfruttamento efficiente dell’energia da parte degli ausiliari.
Ecco perché l’ibrido è una tappa tecnologica cruciale: perché è praticamente
certo che un po’ di pensiero ibrido debba salire a bordo anche delle automobili
di chi un ibrido non lo comprerà mai.
Gli
europei, invece, non paiono granché entusiasti dell’idea
dell’ibrido.
Hanno investito molto, e con successo, sul Diesel e l’ibrido a benzina,
nella migliore delle ipotesi, potrebbe diventare paragonabile al motore
Diesel per quanto riguarda i suoi dati di efficienza e di costo. Ma nonostante
la crescita dell’offerta di veicoli ibridi, nella migliore delle ipotesi
la quota sul mercato mondiale potrebbe arrivare al 2% nel 2010 e al 5%
nel 2025: ancora molto poco. Anche per questo, anziché
puntare
tutto su una tecnologia radicale come lo “Strong Hybrid” HSD di
Toyota,
Bosch punta a introdurre una gamma articolata di Micro, Mild e Strong Hybrids.
I primi sono semplici “accessori” miranti a ridurre il consumo, come
il sistema Start/Stop o l’alternatore a doppio voltaggio SPS, in grado
di alimentare fino a 3 kW a 14V oppure fino a 8 kW a 42 V inviando
l’eccedenza
alla batteria, pensato per essere combinato con un sistema di recupero
energia in frenata. Gli altri sono inseriti nella generale strategia del
downsizing attualmente perseguita attraverso sovralimentazione e iniezione
diretta.
Ma
l’emotivo mercato americano non perdona chi indugia, così GM ha
annunciato
che metterà il produzione il P1/2 sviluppato con DaimlerChrysler e BMW
già nel 2007, offrendolo in opzione su molti modelli in abbinamento al
V8 5.7 HEMI per il quale promette economie del 25%, fino a 30 mpg (12,5
km/l) in autostrada. Inoltre la partnership sta sviluppando un sistema
di trasmissione a variazione continua elettrica eCVT simile a quanto fa
l’HSD, ma basata su una diversa meccanica. L’eCVT ha due
modalità
elettriche e quattro rapporti di trasmissione fissi: la combinazione di
tutte le opzioni porta a 6 modalità di funzionamento: un CVT puramente
elettrico, un CVT misto elettrico-endotermico e quattro rapporti fissi
con i due motori elettrici pronti a sostenere quello endotermico in
accelerazione
o a recuperare energia in frenata.
Del P1/2, che sembra la risposta più
seria all’HSD, sentiremo certamente parlare.Al di là
dell’implementazione
specifica, però, va detto che l’ibrido, per quanto destinato
probabilmente
a rimanere sempre minoritario nel mercato, non può ormai più
essere considerato
una tecnologia “alternativa”. Esso rappresenta legittimamente una
terza
opzione propulsiva, accanto ai motori Otto e Diesel
– e senza
considerare l’arrivo, che pare ormai imminente, dei motori policarburante
in grado di bruciare efficientemente combustibili diversi. L’ibrido
è
uscito dal ghetto delle stranezze da salone ed è destinato a rimanere:
questa consapevolezza ha lanciato una sfida tecnologica sia ai Costruttori,
per quanto riguarda le tematiche progettuali e impiantistiche, che ai fornitori,
per quanto riguarda quelle componentistiche.
Al momento, alla guida del gruppo è
saldamente il Giappone, che produce non solo le vetture più a punto ma
anche, di fatto, tutte le batterie ad alta capacità che fanno capo a
società
come Sanyo, Panasonic e Toshiba. Gli americani hanno fretta di raggiungerli:
anche a costo di concentrarsi interamente sull’aspetto impiantistico e
di trascurare la componentistica: non è un caso che fra i fornitori
tecnologici
della joint-venture GM-DaimlerChrysler-BMW non compaia alcun’azienda a
stelle e strisce. Gli europei sono più preoccupati del monopolio
tecnologico
giapponese: in particolare, i tedeschi stanno spingendo l’industria
nazionale
a fare esperienze in modo da essere pronta entro pochi anni a fornire i
modelli ibridi che un po’ tutte le Case hanno già
annunciato.
Cosa c’è nel futuro dell’ibrido? Probabilmente
questa tecnologia verrà sostituita dalle fuel cell prima di riuscire
a diventare dominante: a quel punto, però, avrà già
svolto il suo compito
più importante. Che è quello di portare una piccola rivoluzione
culturale
nel modo di concepire l’automobile. L’idea di vettura ibrida,
infatti,
non “pesa” solo per le sue ricadute dirette, quanto piuttosto
perché
si inserisce in un contesto ben più ampio. Con il suo accento posto
sull’efficienza,
infatti, questo tipo di propulsione porta con sé tutta una serie di
accorgimenti
destinati a diventare sempre più diffusi, perché nessun
Costruttore vorrà
penalizzare troppo i veicoli “standard”. Accorgimenti che abbiamo
cominciato
a vedere sulla Prius, e che hanno già cominciato a diffondersi su auto
del tutto diverse: si va dall’impiego massiccio di materiali leggeri,
ai pneumatici a bassa resistenza al rotolamento, alla rinnovata cura per
l’aerodinamica fino allo sfruttamento efficiente dell’energia da
parte
degli ausiliari. Ecco perché l’ibrido è una tappa
tecnologica cruciale:
perché è praticamente certo che un po’ di pensiero ibrido
debba salire
a bordo anche delle automobili di chi un ibrido non lo comprerà
mai.