01 August 2022

DeLorean DMC-12, la maledizione

L’unica vettura prodotta da John DeLorean nel biennio 1981-82 è da sempre al centro dell’attenzione dei media, quasi mai del settore: gossip, cinema e finanza l’hanno sempre sottratta agli appassionati puri. Dimentichiamo per un attimo l’ingombrante contorno, scopriamo la sua tecnica e mettiamoci al volante ...

No, non siamo superstiziosi, anche se parliamo di maledizioni. E non ci riferiamo né alla sfortuna dell’avventura commerciale del fondatore della DeLorean Motor Company, John Zachary DeLorean, di cui parliamo in un box a parte, né a quella della cattiva reputazione della sua iconica automobile, dovuta alla scarsa qualità costruttiva e peraltro almeno in parte ingiustificata.

La maledizione a cui ci riferiamo è quella di cui ancora soffre una macchina tanto interessante quanto ambiziosa, trattata spessissimo dalla stampa ma mai realmente in quanto “automobile”: parlando di DeLorean si cade sempre, inevitabilmente, nella trappola de “la macchina di Ritorno al Futuro” o “l’oggetto degli affari sospetti di John DeLorean”.

Perché, ed è comprensibile per carità, quello che è successo attorno alla DMC-12 negli anni Ottanta è stato talmente dirompente a livello mediatico da farci spesso dimenticare che, alla base di tutto, c’è un’automobile. Insolita, moderna, coraggiosa, difettosa, ma pur sempre un’automobile, un mezzo concepito e progettato per essere guidato e per viaggiare, possibilmente non nel tempo. Quindi liquidiamo brevemente il contesto, e passiamo a raccontare cos’è davvero e come va su strada una DMC-12.

Precursore John DeLorean nasce il 6 gennaio 1925 a Detroit, città simbolo dell’automobile americana, dove studia ingegneria. Dopo la guerra perfeziona gli studi alla Chrysler, dove ottiene il primo incarico per poi passare alla Packard e poi ancora alla General Motors. Nel 1961 è in Pontiac e nel 1964, con la GTO, crea il fenomeno muscle car, il cui successo lo porta ad essere il più giovane responsabile del Marchio nella storia del gruppo GM.

Ambizioso e rampante, DeLorean brucia le tappe della carriera con una rapidità mai vista, troppo perfino per la patria del “sogno americano”: visioni contrastanti, invidie e gelosie gli fanno intorno terra bruciata al punto che, nel 1973, il manager abbandona il colosso americano per trasferirsi sulla east coast e coronare il sogno di una casa automobilistica tutta sua.

Sulle complesse vicende personali e imprenditoriali di John DeLorean sono stati versati fiumi di inchiostro ed è stato anche realizzato un bel documentario per la TV; ne parliamo brevemente a parte per evitare di tediarvi con questioni politiche ed economiche, preferendo invece concentrarci, come promesso, sulla vettura. La DeLorean Motor Company viene fondata il 24 ottobre 1975 a Detroit. L’idea del suo visionario fondatore è di creare automobili belle da vedere e da guidare, ma non solo.

DeLorean punta su un approccio che egli stesso definisce etico: le sue auto devono essere brillanti, sicure, comode, durevoli e, addirittura, attente all’ecologia, o almeno a quello che si intende per essa nella prima metà degli anni Settanta.

E immagina, da bravo precursore quale ha già ampiamente dimostrato di essere, una sportiva due posti, spaziosa anche per i suoi standard (era alto 1,93 metri) e facilmente accessibile anche tra le altre auto parcheggiate.

È lo stesso John Zachary a buttar giù i primi schizzi. L’incarico di trasformare i concetti acerbi in realtà è affidato alla nostrana ItalDesign di Giorgetto Giugiaro, che aggiunge il plus della firma italiana ad un progetto che incuriosisce e conquista da subito investitori e dealer.

Il prototipo è pronto in meno di due anni ed è bellissimo: sportivo, equilibrato, accattivante, impreziosito da affascinanti portiere ad ali di gabbiano e da una scenografica carrozzeria in acciaio spazzolato, proposta anni prima da Giugiaro stesso sul prototipo Alfa Romeo Iguana come soluzione per agevolare la rimozione dei piccoli graffi tramite semplice lucidatura, senza bisogno quindi di riverniciare. Anche alla voce meccanica si opta per una scelta anticonformista, immaginando la vettura definitiva spinta da un motore rotativo Wankel.

Ma non è finita: DeLorean investe pure su un innovativo brevetto per realizzare uno chassis con la tecnologia ERM (Elastic Reservoir Moulding) risparmiando sui costi e sui pesi di un tradizionale telaio in acciaio, e pensa ad equipaggiare la macchina anche con l’airbag (una primizia per l’epoca) e con un sofisticato computer di bordo.

Americana d’Europa
Tutto bellissimo: la macchina c’è e piace, gli investitori sono entusiasti, i rivenditori si fregano le mani, il pubblico aspetta trepidante. C’è un solo problema, e cioè che il patron DeLorean, sul lavoro come nella vita privata, ha le mani bucate. E questo, assieme a uno stile di vita particolarmente eccentrico, sempre sotto i riflettori, inizia a creargli problemi sul piano imprenditoriale.

La carenza di fondi, assieme alle difficoltà legate all’individuazione di un sito produttivo portano il progetto a pesanti tagli e ritardi nell’industrializzazione. La vettura subisce un profondo processo di revisione, finalizzata ad una produzione di serie sostenibile, che in parte ne snatura il concetto originale. Coadiuvato da Colin Chapman, patron della Lotus, il manager americano è costretto a rivedere drasticamente il progetto, rinunciando a gran parte delle specificità che rendevano unico il concept della DeLorean.

La tecnologia ERM si rivela poco funzionale, e Chapman ripiega sul telaio in acciaio a forma di doppia Y della sua Esprit, pure disegnata da Giugiaro e molto vicina alla DeLorean per impostazione, architettura e ingombri. Dopo un’attenta selezione, al motore Wankel viene preferito, per affidabilità e consumi, il V6 2.8 PRV a iniezione sviluppato da Peugeot, Renault e Volvo, modificato e adattato per l’inedita collocazione posteriore.

Se a questo aggiungiamo che, dopo una lunga serie di trattative e valutazioni, le linee di produzione vengono allestite in Irlanda del Nord, capiamo come di americano sulla vettura definitiva ci sia rimasto poco più che l’idea. Sull’altare dei costi vengono sacrificati pure airbag, computer di bordo e altri gadget tecnologici.

Fortunatamente la linea viene intaccata in maniera davvero marginale, preservando così l’aspetto spettacoloso del prototipo, inclusa la carrozzeria in acciaio inox lucida e le portiere ad ali di gabbiano, nonostante queste richiedano il brevetto di speciali barre di torsione pretensionate criogenicamente e spinte da molle a gas.

Una soluzione sicuramente scenica, ma anche pratica: per aprirsi completamente le porte necessitano di appena 28 centimetri di impronta a terra. Il rovescio della medaglia è costituito dalla soglia alta da scavalcare e dai finestrini ridotti, impostati come sulla Lamborghini Countach.

Bella ma non balla(va)

L’estetica grintosa e moderna della DMC-12 ha un solo grande difetto: lascia immaginare prestazioni decisamente superiori a quelle reali: il motore in alluminio PRV, un V6 monoalbero a 90° di 2.850 cc, configurato con le specifiche per il mercato americano, più stringenti di quelle europee alla voce emissioni, eroga solo 135 CV; nel Vecchio continente sono 150, qualcosa in più ma comunque non tanti in assoluto.

Su strada il tutto si traduce in un valore dichiarato per lo scatto da zero a 100 km/h in meno di 9 secondi, che sarebbe pure accettabile, ma nei test su strada effettuati all’epoca dalle riviste specializzate non si registrano mai tempi inferiori ai 10”, con un consumo medio reale nell’ordine degli 8 km con un litro.

Numeri effettivamente un po’ deludenti per cotanta macchina. In fase di ordinazione, il V6 può essere abbinato a un cambio automatico a tre marce o a un manuale a 5 marce di derivazione Renault 30, soluzione scelta inaspettatamente dalla maggior parte dei clienti. Alla voce optional troviamo pochissime altre opportunità, appena sette: oltre al cambio automatico si possono scegliere telo copriauto, tappetini interni con logo, bande laterali adesive in due varianti grafiche, portapacchi e portasci.

La strategia commerciale di DeLorean prevede infatti automobili confortevoli e riccamente equipaggiate già in configurazione standard, con estesi rivestimenti in pelle (anche se di qualità non eccelsa), aria condizionata, volante regolabile in altezza e lunghezza, vetri colorati, impianto stereo ad alta potenza, alzacristalli e specchietti elettrici, chiusura centralizzata, modanature protettive alle fiancate, tergicristalli intermittenti e lunotto termico. Ok il fascino, la storia travagliata e avvincente, e ok pure la carriera cinematografica, che poi sono quasi sempre alla base della scelta di chi ne acquista una per motivi collezionistici, ma qui si parla comunque di una bella sportiva. E quindi, come va su strada una DeLorean?

L’occasione ce la fornisce il bell’esemplare di queste pagine, acquistato da due amici di Latina dopo appena una settimana di ricerca: Ivan e Renato, gli attuali proprietari, la comprano infatti a Brescia all’inizio del 2022 da un collezionista che, una quindicina di anni prima, l’aveva ordinata direttamente alla DeLorean in Texas. Sì, perché l’azienda originaria è fallita nel 1981, ma nel 1995 Stephen Wynne, ex imprenditore meccanico di Liverpool, crea una nuova DeLorean Motor Company acquistando il marchio, i diritti, gli oltre 100 brevetti della Casa più tutte le parti di ricambio che trova sul mercato.

La repentina interruzione della produzione negli stabilimenti irlandesi aveva infatti lasciato pronte e inutilizzate migliaia di parti meccaniche e di carrozzeria, in previsione di assemblare gli esemplari già preordinati. Un lavoro che viene portato a termine dalla nuova società di Wynne, tuttora in fiorente attività (la lista di attesa è parecchio lunga), che affianca alla produzione delle vetture assemblate da zero il restauro e il ricondizionamento di quelle esistenti, come avvenuto sulla DMC-12 di queste pagine. L’opera di Wynne sulle DeLorean spesso e volentieri non si limita ad un restauro filologicamente corretto.

Capita molto di frequente che vengano effettuati interventi migliorativi per correggere alcuni dei difetti tipici della vettura, sia progettuali che di assemblaggio, non sempre realizzato a regola d’arte dalle turbolente maestranze irlandesi. Si tratta comunque di operazioni fatte con molto gusto: all’esterno le “correzioni” sono minime, nel caso della nostra vettura si tratta solo dei fari di profondità con effetto “angel eyes” e del cofano anteriore liscio (montato solo sugli ultimi esemplari), mentre sui primi era nervato e con lo sportello del carburante separato.

Il grosso del lavoro si è concentrato, in questo caso, sulla meccanica, col propulsore portato alla soglia dei 200 CV grazie a una serie di upgrade che includono anche aspirazione e scarico, sull’impianto frenante e sull’assetto, molto più rigido e soprattutto bilanciato: già ad occhio nudo la vettura si presenta più bassa e allineata al terreno, andando a correggere quell’impostazione “impennata”, tipica delle vetture di serie e causata dal posizionamento del motore, che sposta sul retrotreno ben il 65% della massa complessiva. Ancora più bella e... adesso balla!

Alla prova dei fatti i risultati si vedono e si sentono anche su strada: dopo aver completato il reportage fotografico, esserci finalmente calati nell’abitacolo confortevole e avvolgente, aver tirato giù la portiera tramite una maniglia morbida, prendiamo confidenza con postura di guida e comandi prima di girare la chiave. In Texas hanno fatto un gran bel lavoro, che le attente cure del precedente proprietario ci restituiscono in tutta la loro sapiente artigianalità. Plancia e comandi della DMC-12 concettualmente dimostrano meno dei loro quarant’anni abbondanti e forma, disposizione e fattura degli arredi rimandano immediatamente alla Lotus Esprit, con cui la vettura condivide, oltre al telaio, anche sospensioni indipendenti a quadrilatero sull’asse anteriore e multilink al posteriore.

Nel complesso l’insieme è pulito e ben assemblato, e se non fosse per il tono di grigio non particolarmente moderno, la vettura sembrerebbe ancora più fresca di quanto sia in realtà. Per essere una sportiva a due posti secchi e motore posteriore, visibilità e abitabilità sono piuttosto soddisfacenti, con un ampio spazio per i bagagli alle spalle dei due sedili a poggiatesta integrato che si aggiunge al vano di carico anteriore, ampio ma poco profondo. Mettiamo in moto. Il borbottio del V6, “remixato” dallo scarico sportivo, suona in maniera decisamente diversa da qualsiasi altra auto europea equipaggiata con lo stesso motore (ne trattiamo in un box separato).

Il rombo è grave e bello pieno. Ci prendiamo il tempo minimo necessario per familiarizzare con gli ingombri e con la risposta dello sterzo, che su questo esemplare ha un ritorno leggermente lento dal fine corsa, e ci immettiamo su una strada provinciale mentre fuori inizia a piovigginare; siamo infatti costretti ad allontanarci dall’abitato, dove è impossibile lavorare sulla vettura a causa della tempesta di domande che ci arriva da ogni forma di passante. Persino le massaie con la spesa si fermano a chiederci che auto sia.

Appena la strada si libera proviamo a dare gas. I 135 CV del setup originale sono un lontano ricordo: la nostra DMC-12 spinge forte e decisa, con un sound ricco ma mai fastidioso. È un’auto sportiva? Probabilmente no, o almeno non per come la intendiamo noi europei; è pensata da un americano e si vede. Seppur reattiva e repentina nei cambi di direzione grazie all’assetto made in Texas, non stiamo guidando una macchina da misto stretto, quanto piuttosto un bell’oggetto da guidare veloce su una statale morbida o in autostrada, tra pelle e aria condizionata. Una gran turismo, insomma, condita con un fascino diverso.

Nonostante sia servoassistito infatti, lo sterzo non ha né la presa né la risposta di una berlinetta italiana, semplicemente perché non era tra le priorità di John Zachary, e anche l’impianto frenante, servoassistito anch’esso con dischi da 254 mm sull’anteriore e 267 mm sul posteriore, non è incisivo come su una sportiva dura e pura, ma è progressivo nella frenata e al pedale risulta leggermente gommoso. DeLorean voleva una macchina diversa, personale, nuova, caratterizzata da un pizzico di genio folle ma da usare tutti i giorni.

Ci è riuscito? Se chiudiamo gli occhi e ci caliamo nel panorama automobilistico del 1980, possiamo dire di sì. Se non fosse per un difetto: su una DeLorean un giro in centro diventa un’esperienza mistica e dalla durata imprevedibile, dato che è praticamente impossibile passare inosservati.

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