26 February 2023

Shelby Cobra, colpo di genio

Nell’anno del centenario della nascita di Carroll Shelby, rendiamo omaggio alla sua Cobra. Storia e sviluppo di un’auto diventata leggendaria, nata dall’intuizione di abbinare una telaistica inglese ai motori americani ...

1/29

Antefatto: Inghilterra, 1953. La piccola factory britannica AC mette in produzione la Ace, una gradevole e filante roadster realizzata accoppiando una bella carrozzeria in alluminio ad un telaio tubolare con sospensioni indipendenti.

La vettura debutta con il brillante motore AC da 2 litri e 6 cilindri monoalbero a camme in testa, capace di 100 CV di potenza e 165 km/h di velocità massima. Come alternativa a questo, nel 1956, viene affiancato un più corposo 6 cilindri in linea di derivazione Bristol da 2 litri e 120 CV.

La AC Ace Bristol corre alla 24 Ore di Le Mans nel 1957, 1958 e 1959, quando conquista la classe GT da 2.000 cc e il 7° posto assoluto. Patto transatlantico Texas, 1960. Carroll Shelby è un pilota che ha corso, tra gli altri, per Maserati e Aston Martin, gareggiando pure in Formula 1 e a Le Mans. Il destino vuole che gli sia stato appena diagnosticato un problema cardiaco congenito che non gli permetterà più di correre.

Shelby è un americano di quelli tosti: massiccio, mascella volitiva e cappellone da cowboy perennemente sulla testa. Non è tipo da piangersi addosso, insomma. “Se non posso correre”, pensa, “troverò un altro modo per rimanere nelle corse”. E così è. All’epoca Shelby ha gareggiato in Europa, conosce quindi molto bene quanto sia differente l’approccio dei Costruttori del Vecchio continente rispetto agli Stati Uniti.

E ha visto coi suoi occhi la poderosa corazzata a stelle e strisce, fatta di mastodontiche Ford e Chevrolet V8, cadere sotto i colpi letali di minuscole Alfa Romeo dai motori poco più grandi di quelli di un tosaerba. Perché gli americani fanno le cose in grande quando si tratta di centimetri cubici e CV, ma negli anni Cinquanta sono ancora piuttosto approssimativi per quanto riguarda telai e sospensioni e per questo, sui circuiti “guidati” che tanto piacciono a italiani, francesi, tedeschi e inglesi, soccombono regolarmente.

Solo l’anno prima, Shelby ha corso a Le Mans a bordo di una Aston Martin DBR1; sa bene di cosa sono capaci gli inglesi e, soprattutto, non ha potuto fare a meno di notare la bella barchetta dal fascinoso stile rétro che si è imposta nella classe due litri.

Ed ecco la quadratura del cerchio: l’intuizione di Carroll è di diventare il primo costruttore automobilistico capace di abbinare la forza bruta dei grandi V8 made in USA a un telaio leggero e stabile costruito in Inghilterra.

Una formula perfetta per battere con l’agilità le pesanti americane in patria, e con la potenza pura le guizzanti e leggere europee proprio in casa loro. Da bravo yankee “praticone”, Shelby si mette subito in moto. Il primo tentativo lo gioca bussando alla porta di Chevrolet per chiedere il V8 della Corvette, ma il Costruttore rifiuta per paura di favorire un potenziale concorrente sui campi di gara.

Poco male: proprio questo timore diventa la chiave per aprire un’altra porta, quella di Ford che, ingolosita dall’idea di battere i cugini di Detroit, accetta di fornire due nuovissimi motori V8, i compatti e leggeri Windstor da 3,6 litri.

Le cose vanno ancora meglio quando Shelby vola in Gran Bretagna per convincere i fratelli Hurlock, proprietari della AC Cars, a fornirgli i telai. La proposta dell’americano risulta infatti provvidenziale, dato che l’azienda di West Norwood è ormai sull’orlo della bancarotta e, come se non bastasse, Bristol ha da poco interrotto la fornitura dei suoi brillanti 6 cilindri.

Una volta rientrato in patria, l’ex pilota si insedia in California, nei locali di Venice dove fino a poco prima si produceva la Scarab. Qui, nel 1961, fonda la Shelby-American e, una volta ricevute le prime vetture senza meccanica dall’Europa, parte la progettazione della nuova macchina. Più largo e corto del 6 in linea inglese, in appena otto ore il V8 entra senza troppe difficoltà nel vano anteriore della Ace.

A soffrire maggiormente, a causa del peso della nuova unità, è il reparto sospensioni, che viene debitamente irrobustito, mentre la colonna dello sterzo viene deviata con una serie di rimandi per girare attorno all’ingombrante propulsore. L’esuberante potenza sprigionata dal V8 mette in crisi pure il retrotreno, per il quale si adatta quello della Jaguar E-type, debitamente modificato. Infine, tanto per stare leggeri, si interviene pure sulle specifiche Ford, e i 3,6 litri di cilindrata diventano in un attimo 4,3: la potenza erogata non è esagerata, 260 CV, ma la coppia è mostruosa e, abbinata ad un peso complessivo di parecchio inferiore alla tonnellata, promette scintille. L’unica vera grana da risolvere riguarda le delicate carrozzerie in alluminio non trattate né verniciate che, durante la traversata via mare dall’Inghilterra, si ossidano in maniera drammatica. Da Detroit a Daytona Aiutata da un nome a dir poco evocativo, Cobra, la macchina va forte sia in pista che tra l’opinione pubblica.

In aprile, la Cobra carrozzata in alluminio grezzo lucidato appare sulla copertina della rivista Sports Car Graphic. Tinta di giallo, la macchina viene poi fornita in prova all’autorevole testata Road and Track e ad altre riviste specializzate, riverniciata di volta in volta in un colore diverso per simulare una produzione ormai già avviata. Condizione che comunque si verifica poco dopo, grazie agli ordini raccolti al New York Auto Show, dove la vettura viene esposta per la prima volta al grande pubblico. Già nel secondo anno di produzione, il motore viene maggiorato a 4,7 litri e, nel 1963, arriva la prima vittoria: a Riverside la Cobra mette in riga Maserati, Porsche e, soprattutto, Corvette.

Dove la vettura manca l’obbiettivo è invece in Europa: i tortuosi circuiti stradali francesi e italiani sono ancora troppo tecnici per una macchina leggera sì, ma troppo scorbutica e ingestibile nel misto. Non c’è altra soluzione che riprogettare interamente telaio e sospensioni, un compito delicato per il quale è necessario l’intervento del meccanico e pilota-collaudatore Ken Miles, vecchio amico di Shelby. Grazie al suo contributo, nel 1965 arriva la Cobra Mk III 427, con telaio irrobustito, sospensioni indipendenti a doppi triangoli, carreggiate allargate e pneumatici... enormi, necessari per scaricare a terra i 425 CV e i 660 Nm erogati dal poderoso V8, che nel frattempo ha raggiunto quota 7 litri di cilindrata a fronte di poco più di 1.200 kg di massa complessiva.

Un passaggio estremo ma non ancora conclusivo: da quest’ultima versione deriva la Cobra definitiva, la versione S/C (Semi-Competition) spinta da un V8 da 492 CV e 300 km/h sviluppato per le gare Nascar. Una macchina talmente estrema da non essere omologata per nessuna categoria. Purtroppo però le dimensioni del telaio tornate troppo vicine allo standard americano, assieme a una guidabilità ancora non all’altezza delle rivali locali, impediscono alla Shelby di trovare il successo in Europa.

Carroll, alle prese con un progetto ancora più ambizioso, ovvero aiutare la Ford a battere nientemeno che la Ferrari con la nuova GT40, trova comunque il tempo di sviluppare e costruire una Cobra pensata appositamente per le gare europee. Senza l’aiuto della galleria del vento, ma solo con sperimentazioni empiriche, l’americano progetta un’inedita carrozzeria chiusa a coda tronca, in stile Ferrari 250 GTO, per rendere la vettura più stabile ed efficace alle alte velocità raggiungibili a Le Mans. L’aerodinamica grezza da lui abbozzata viene riveduta e corretta dalla Grand Sport, ditta modenese incaricata di realizzare le carrozzerie.

Il nuovo, elegante vestito viene abbinato a una altrettanto nuova versione del V8, meno potente (390 CV) ma più affidabile, per realizzare un lotto di 6 automobili. La Shelby Daytona, questo il nome di battesimo, nel giro di 12 mesi fa incetta di vittorie nelle gare di durata, da Daytona a Sebring e, in Europa, a Monza, Nürburgring e Reims, arrivando seconda nel 1964 e prima nel 1965 nella 3a divisione del Campionato Internazionale Gran Turismo. Una bella storia di successo che si conclude bruscamente con la drammatica battuta di arresto che arriva nel 1966: durante i test di sviluppo della Ford GT40 Mk IV, il fido e talentuoso Ken Miles perde la vita in un incidente, sotto gli occhi di Carroll.

Il trauma è violento e Shelby decide di chiudere l’azienda e ritirarsi dalle competizioni. Da lì in poi la sua attività per la Ford procede come semplice consulente: firmerà le versioni più prestazionali delle nuove Mustang, creando ancora una volta un nuovo segmento automobilistico, quello delle muscle car compatte. Ci vuole manico La Cobra è qualcosa che, semplicemente, prima non esisteva. Un’elegante carrozzeria di alluminio dallo stile classico, battuta a mano, che avvolge un V8 rude e violento, una sorta di mastino travestito da levriero.

Un’intuizione che lascia il segno. Che sia Shelby AC Cobra, come si chiama all’inizio, o AC Cobra o infine Ford Cobra, si tratta di un’autentica icona, e niente riuscirà a imprimere il proprio carattere con tale incisività nell’immaginario dell’automobilismo americano, soprattutto se si pensa che la produzione totalizza si e no un migliaio di esemplari. Non stupisce quindi scoprire che repliche più o meno autorizzate della bella sportiva americana si sono alternate ininterrottamente dagli anni Sessanta fino ad oggi. E sono talmente tante che meriterebbero una trattazione separata. Ma lasciamo da parte le riproduzioni e concentriamoci su una bella Cobra col pedigree, telaio CSX2057, costruita da AC Cars nel dicembre del 1962 e poi spedita negli Stati Uniti, dove riceve un motore Shelby 260, per poi tornare in Europa nella metà degli anni Novanta.

Nel mentre, una vita burrascosa: diversi proprietari tra San Francisco e Oklahoma City, e tante competizioni; tra questi lo sventurato gentleman driver Tim Harvey che, il 10 luglio del 1985, perde la vita in un pauroso incidente da cui la vettura esce distrutta. Durante il restauro, la macchina riceve un nuovo motore 289 di derivazione Mustang GT 350 del 1966 e viene ripristinata la configurazione originale di fabbrica: livrea nera con interni neri e accessori leziosi quali alette parasole e deflettori, rostri paraurti e coperchio punterie cromato. Il tutto viene completato con parti specifiche dell’ambita versione S/C, come i cerchi Halibrand, gli scarichi laterali e i parafanghi allargati.

In Europa la vettura è stata curata dagli specialisti olandesi di DBM Engineering, prima di finire nell’esclusiva vetrina di Gipimotor, dove è attualmente proposta in vendita. Il prezzo, come è facile intuire, è impegnativo: le 289 viaggiano a quotazioni siderali, prossime al milione di euro nel caso di esemplari dalla storia sportiva importante. E al contrario di quanto si pensi, sono proprio le più piccole 289 le più apprezzate: comunque potentissime, risultano più equilibrate e gestibili delle brutali 427, che sono quasi impossibili da condurre sulle strade di tutti i giorni.

Le 289 raramente si trovano in configurazione stock; spesso e volentieri venivano preparate già all’epoca in base alle specifiche dei regolamenti di gara a cui partecipavano, su tutti il celebre SCCA (Sports Car Club of America) e l’USRRC (United States Road Racing Championship), vinto da una Cobra sia nel 1963 che nel 1964. Nel caso della vettura fotografata, si parla di qualcosa in meno di 400 CV, scaricati attraverso un cambio manuale Borg-Warner a 4 rapporti, con la quarta in presa diretta, chiamati a spostare 920 kg di peso...

Sia chiaro, sono vetture comunque impegnative: per risultare davvero efficaci vanno prese di petto, anticipando l’ingresso in curva e poi dando giù col gas per portarle fuori, compensando col brusco sottosterzo in uscita la scarsa direzionalità dell’avantreno, pesante sia per la massa del motore che per l’attrito dei “gommoni”. A questo si sommano “le braccia” indispensabili per gestire lo sterzo e i muscoli delle gambe per spingere una delle frizioni più dure della storia. Il tutto è compensato, almeno in parte, dalla poca fatica nel gestirne la manutenzione: è il bello della meccanica made in USA, tanto semplice e robusta quanto generosa. alluminio. Anche se oggi è frequente imbattersi in svariate repliche, quasi tutte realizzate con la carrozzeria in vetroresina, la Cobra nasce con il corpo vettura in alluminio.

1/29

Le ultime news video

© RIPRODUZIONE RISERVATA