Eccole le nostre tre protagoniste in fila indiana su un tracciato in collina, come dire il loro ideale terreno di confronto. Si guidavano e si guidano tuttora con tre tecniche differenti, rispettose della spiccata personalità di ciascuna. Ognuna di esse però restituisce con grande generosità il piacere di una guida molto fisica, in contatto ravvicinato con la loro meccanica calda e fremente.
All’inizio della stagione 1972 il mondo dei Rally attraversava un momento di grande trasformazione. Alcune delle auto protagoniste più affermate degli anni precedenti stavano per uscire di scena, altre già baciate dal successo cercavano la loro affermazione definitiva, altre ancora erano in procinto di uscire da una adolescenza entusiasmante ma protratta fin troppo a lungo per consolidare il successo nella vita adulta. Dal punto di vista squisitamente tecnico il panorama si presentava quanto mai interessante.
La trazione anteriore, portata all’attenzione del grande pubblico dalle incredibili prestazioni delle Mini Cooper S nei Rally invernali, soprattutto il Montecarlo, e in quelli misti terra asfalto, come il Sanremo, era considerata ormai superata, messa in crisi anche dal progressivo aumento delle potenze.
La configurazione tutto-dietro aveva dato ampia dimostrazione della sua capacità di adattamento alle diverse caratteristiche di fondo stradale, ulteriormente avvantaggiata da una grande facilità di guida.
Ma l’impostazione tradizionale, motore anteriore e trazione posteriore, era ben lungi dall’aver esaurito le proprie chances, anzi, veniva facile presagire che grandi risultati potevano essere ottenuti con un adeguato sviluppo di progetto. Insomma, tutto poteva accadere. La fantasia dei tecnici era in pieno fermento, le Case automobilistiche stavano al gioco e l’interesse del pubblico cresceva in modo esponenziale.
Una partita apertissima, tutta da giocare come ben sapevano i 300 iscritti al Rally di Montecarlo che il 21 gennaio 1972 partirono dalle 9 città europee per il percorso di avvicinamento al Principato. Sorpresa al Montecarlo Quel che accadde nell’ultima settimana di gennaio ’72, alla 41° edizione del Rally di Montecarlo, fu un evento del tutto inaspettato ma anche rivelatore.
L’anno prima le Alpine A110 l’avevano fatta da padrone piazzando tre vetture ai primi tre posti, grande anteprima di una stagione magnifica che le vide alla fine vincere il Campionato Internazionale Costruttori, tanto che dopo i successi a ripetizione delle Porsche sembrava proprio che fosse ormai il tempo dei motori posteriori. Ma la realtà delle competizioni riserva sempre molte sorprese.
Fu la neve in particolare, ospite privilegiato sulle strade del Rally più famoso del mondo, a rimescolare inaspettatamente le carte. Non che le squadre fossero impreparate, tutt’altro. Però in quegli anni per fare stare in strada le macchine su neve e ghiaccio si poteva, anzi si doveva, ricorrere a chiodature dei pneumatici sempre più azzardate. Le potenze elevate e i pesi contenuti rendevano infatti problematico scaricare a terra i tanti CV a disposizione: le soluzioni sembravano a portata di mano eppure non erano sempre prive di controindicazioni.
La Porsche di Waldegaard, dopo aver dominato sull’asciutto, si auto-eliminò molto rapidamente sul terreno nevoso sparando via a raffica e in poco tempo gli oltre 600 chiodi per pneumatico in dotazione. Le Fulvia HF 1600 e le Alpine A110 invece, meno potenti e con minor coppia motrice, ebbero vita più facile, soprattutto la Fulvia grazie ai fantastici CN 36 e MS forniti dalla Pirelli. L’Alpine di Darniche avrebbe vinto se non fosse stata messa sotto pressione dalla Fulvia di Munari, tanto da dover abbandonare nel finale col cambio rotto.
Morale della favola: il trionfo indimenticabile della “Fanalone” n.14 di Munari dimostrava che le “vecchie” trazione anteriore potevano ancora dire la loro, soprattutto se dotate di una affidabilità totale, perché su terreni a bassa aderenza riuscivano a dare il massimo senza sprecare un solo CV.
Le tutto-dietro erano avvantaggiate più dalla leggerezza che dalla potenza ed erano fortissime sull’asciutto. Le tradizionali scontavano uno sviluppo ancora limitato, in particolar modo le Fiat 124 Spider, troppo vicine alla versione di serie pur se già arrivate a quasi 170 CV. Alla fine della stagione ’72 il risultato premiò la Lancia, che grazie alle vittorie a Montecarlo, in Marocco e a Sanremo vinse il Campionato Internazionale Rally per Marche.
L’Alpine pur collezionando numerosi risultati notevoli non riuscì a ben figurare nella classifica finale del Campionato. Fiat invece si piazzò al secondo posto forte delle vittorie in Grecia al Rally Acropoli e all’Alpenfahrt in Austria.
La svolta del 1972 Le nostre tre protagoniste si trovano dunque a questo punto cruciale della loro carriera, a fine 1972: la Fulvia ha dato tutto quello che poteva dare e si prepara ad andare in pensione, godendosi il meritato alloro di Campione Internazionale. Lascia il suo posto alla nuova creatura Lancia fortemente voluta da Cesare Fiorio, la Stratos.
Sarà questa una vettura fantastica, frutto di una nuova concezione tecnica che privilegia le “tutto al centro”, cioè motore e trasmissione centrali per una perfetta distribuzione dei pesi.
Diventerà la cosiddetta “ammazzarally” perché dominerà incontrastata la specialità per quasi dieci anni. L’Alpine A110, entrata nel novero delle grandi protagoniste dei rally nel 1969 grazie all’adozione del motore 1600, sviluppata col motore 1800 conquisterà nel ’73 il titolo di Campione del Mondo Rally. La Fiat invece presenta a fine ’72 la sua arma vincente, la 124 Abarth Rally: è l’evoluzione corsaiola della 124 Sport Spider, che ha appena concluso una stagione entusiasmante.
Sarà una grande vettura, in perenne lotta con Stratos e Alpine, ma anche eterna seconda nel neonato Campionato del Mondo Rally. Oggi abbiamo di fronte ai nostri occhi queste tre magnifiche automobili nella loro versione di serie, cioè nelle stesse identiche condizioni in cui uscivano dalla fabbrica prima di passare per le mani dei reparti corsa ufficiali oppure dei vari preparatori. Sono dunque esattamente gli esemplari che chiunque (si fa per dire…) poteva acquistare direttamente al concessionario, andarci tranquillamente a spasso la domenica e nelle feste comandate oppure dilettarsi in qualche sporadica divagazione agonistica, magari optando per una più semplice preparazione Gruppo 3, cioè Gran Turismo di serie.
Le nostre tre amiche però sono proprio intonse, belle e immacolate come al momento della loro nascita. Ed è da questo punto di vista che vogliamo guardarle, ammirarle e sentirle in azione. Affascinante “Fanalone” La Fulvia HF 1600 ci guarda sorniona, sa benissimo di averci ammaliato fin dall’inizio.
È bellissima, punto. Assolutamente fedele all’originale, come appena ritirata dal concessionario ma con gli inevitabili segni del tempo, nascosti nei vari particolari, che non fanno che esaltare a dismisura tutto il suo fascino. Non c’è traccia di quelle personalizzazioni, sarebbe meglio dire spersonalizzazioni, così frequenti sulla “Fanalone” e colpevoli di toglierle storicità per omologarla al gusto corrente. Lei invece è schietta, pulita e sincera nella sua totale originalità, non ha bisogno di alcun orpello o alcun trucco per apparire più bella o più grintosa.
È lei e basta, il vero e ultimo stadio di evoluzione di un progetto straordinario, che ha consentito alla Lancia di segnare una traccia profonda nel cuore degli appassionati e degli automobilisti in generale e di conquistare, nel suo ultimo anno di vita, il traguardo più ambito nel mondo dei Rally.
Incute affettuoso rispetto, a vederla scaricare dal carrello per partecipare alla nostra sessione fotografica vien quasi da dire “State attenti, mi raccomando!” ai volonterosi che invece la stanno proprio trattando con i guanti. Adagiata finalmente sull’asfalto appare compatta, proporzionata, quasi piccola.
Le grandi superfici vetrate e l’abitacolo a torretta sono gli stessi della Fulvia Coupé, e rimandano subito ai tempi in cui la piccola Lancia, nel classico blu scuro, era la vettura di moda per le signore-bene ma anche per i giovani di buona famiglia, quelli con i papà generosi che, tolti i paraurti e con i tromboncini ai carburatori, si divertivano a sfidare i loro coetanei altrettanto fortunati con l’Alfa Romeo GT Junior.
La “Fanalone” ha la stessa aristocratica eleganza ma in più la bella essenzialità delle auto da competizione, seppur derivata dalla serie: le cromature sono drasticamente ridotte, i paraurti assenti con i loro alloggiamenti coperti senza problemi con borchie lucidate, finestrini e lunotto in plexiglass acuiscono l’atmosfera, così come i codolini in nero opaco. I bei cerchi in lega da 13” Cromodora sono quelli normali di primo equipaggiamento, non i gettonatissimi Campagnolo da corsa ricercati da quasi tutti.
Una delle poche. È stata prodotta nel 1969 ed è uno dei 276 esemplari, tra i 1.278 prodotti in totale, ad avere il cambio a 5 marce di specifica progettazione, e cioè con una scatola cambio completa di nuova concezione, anziché la vecchia del 4 marce adattata con un diverso coperchio posteriore per creare lo spazio necessario al 5° rapporto. Una soluzione questa piuttosto artigianale, dettata da motivi puramente economici in attesa di un diverso sviluppo della produzione di grande serie.
Lo scotto pagato naturalmente era una maggiore fragilità di tutto il complesso, risolto con la nuova fusione, ripresa poi in quella che sarebbe stata la 2a serie. Ritrovata nell’inverno del 1989 in un salone d’auto di Spoleto, dove era rimasta invenduta come auto usata per ben 12 anni, è stata acquistata dall’attuale proprietario Giuseppe Vitali, già possessore di altre due Fulvia HF (una HFR e un prototipo assai interessante…) e grande appassionato del modello. Essendo egli anche un profondo conoscitore, gli è bastato poco per capire che si trattava di un’auto perfetta, sfruttata poco, mai impiegata in corsa e assolutamente originale, con le giuste corrispondenze dei numeri di telaio e motore.
C’era però un rumorino al cambio che, nell’assenza di altri problemi, dava un certo fastidio. “Nell’officina di Enrico Perozzi, già autore del restauro della mia HF 1.3 – racconta Vitali – smontammo tutto l’avantreno con motore e cambio, visto che c’eravamo abbiamo cambiato tutte le parti in gomma, smontammo il motore cambiando bronzine e fasce elastiche e sostituimmo l’ingranaggio della terza marcia.
A distanza di trent’anni abbiamo poi rimediato a qualche imperfezione di carrozzeria con l’aiuto prezioso del mio carrozziere Roberto Pagliari, un vero artista.” Il risultato è eccellente, e non poteva essere altro che così vista la competenza di Vitali. Anche gli interni sono perfetti nella loro originalità. Colpiscono subito due aspetti: la proverbiale cura Lancia nell’assemblaggio, pur trattandosi di un’auto a vocazione corsaiola semplificata e alleggerita per quanto possibile, e il singolare contrasto tra questo spirito sportivo e le finiture in legno della plancia e del volante, identico a quello delle versioni normali. Come dire, se si corre d’accordo, ma se si fa del turismo veloce siamo pur sempre dei raffinati lancisti…
Aperto il cofano, spicca la compattezza del 4V e la pulizia complessiva del vano, risultato di un lavoro di ripristino molto accurato. Berlinetta da corsa Di tutt’altro aspetto la Renault Alpine A110. Molto piccola e bassa, profilatissima, costruita per così dire intorno alla corporatura di pilota e passeggero senza sprecare altro spazio se non quello strettamente necessario, tradisce immediatamente la sua indole di pura macchina da corsa.
E’ l’erede delle gloriose A110 di 1.000, 1.100 e 1.300 cc, con motori sempre di provenienza Renault, che specie nei primi anni hanno consentito a numerosissimi piloti di muovere i primi passi in gara. Ma è col 1969, quando viene montato il motore 1.565 cc della berlina Renault 16, che la Alpine 1600 raggiunge il livello necessario per aspirare al podio più alto.
La 1600S del ’70 è un’auto matura, molto prestazionale e adattissima soprattutto per le competizioni stradali e i Rally, specialità in cui riesce a sfruttare a fondo le sue grandi doti di agilità e maneggevolezza, favorite da un peso complessivo estremamente ridotto. Squadra ufficiale, scuderie e semplici piloti privati ne fanno soprattutto in Francia, Italia e Spagna (prodotta in loco dalla Fasa) un’arma da primo assoluto. Vincitrice alla grande del Rally di Montecarlo del 1971, rimedierà alla bruciante sconfitta subita nello stesso Rally ad opera della Fulvia HF 1600 di Munari nel 1972 con la conquista l’anno successivo della prima edizione del Campionato del Mondo Rally.
Col motore portato a 1.800 cc e una potenza di oltre 170 CV avrà lunga e gloriosa vita agonistica. Tra tutte le serie ne sono state costruite circa 8.000. Stradale è meglio La A110 1600S di Renato Ambrosi ha un bel passato corsaiolo, tra cui merita di essere ricordato il 5° Rally Due Valli disputatosi nell’ottobre del 1976 nel veronese, proprio quello che causò in lui il proverbiale colpo di fulmine per la sportiva francese. Un innamoramento talmente forte che pur dopo la bellezza di più di quarant’anni di paziente attesa è arrivato alla celebrazione del giusto rito: l’acquisto nel 2009 dell’azzurra Alpine A110 oggetto del desiderio.
Prodotta il 28 febbraio 1972, la macchina riporta la sigla T 1324 sul telaio e le punzonature 1324 sui particolari della carrozzeria e grazie alla giusta corrispondenza del numero di motore risulta originale e soprattutto priva di alterazioni tali da compromettere l’autenticità delle sue componenti fondamentali. Si presenta subito in buone condizioni, ma necessita all’evidenza di un profondo restauro. I suoi trascorsi rallistici infatti hanno lasciato delle tracce rimarcate, che il tempo trascorso ha inevitabilmente accentuato.
Di fronte al classico dilemma se restaurarla recuperandone la preparazione sportiva oppure ripristinando la totale originalità, saggiamente Ambrosi propende per la seconda soluzione. Come già è stato detto per la Fulvia infatti, visto il proliferare di Alpine con più o meno fantasiose elaborazioni in chiave agonistica o quasi, ben venga il lavoro attento e paziente di restituzione di una testimonianza storica che altrimenti andrebbe perduta. Del resto anche l’Alpine era apprezzatissima ai suoi tempi come vettura sportiva tout-court, usata magari da piloti gentleman con una preparazione Gruppo 3 che si limitava davvero al minimo indispensabile.