04 July 2021

Lamborghini Diablo, a 325 km/h nel futuro

La Lamborghini Diablo è il modello che traghettò (a velocità record) Sant’Agata dall’artigianalità della Countach alla realtà industriale di oggi. Nel 2020 ha compiuto trent’anni: chi lo direbbe, vedendone una per strada?

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Nel 2020 Lamborghini ha celebrato il 30° anniversario della Diablo, l’erede della Countach, divenuta così, anche se pare incredibile a dirsi, auto “d’epoca”. Pare incredibile perché la linea risulta avveniristica ancor oggi, bella aggressiva e muscolosa com’è, nel rispetto della tradizione della Casa.

D’altra parte, la mano è la stessa della Countach, quella di Marcello Gandini (anche se era difficilissimo stupire di nuovo, allo stesso modo, per la terza volta dopo Miura e Countach appunto), per quanto rivista in qualche dettaglio dagli stilisti della Chrysler, che acquista ufficialmente Sant’Agata il 27 aprile 1987, quando il “Progetto 132” è abbondantemente avviato.

Gestazione particolare, peraltro: il disegno della Diablo, spettacolare come si addice ad una Lamborghini, appare quasi uguale a quello messo a disposizione dal “Maestro” per la supercar CiZeta Moroder V16T di due anni prima.

Che però non ebbe grandi possibilità, come risultò subito chiaro, di una produzione in serie ancorché minima (pare ne siano state consegnate una decina in tutto, una all’immancabile Sultano del Brunei) dunque parve giusto a tutti adattarlo alla nuova Lamborghini, che dieci esemplari li avrebbe prodotti in cinque giorni.

Conquistando gli appassionati fin dal giorno della presentazione, la Diablo è ufficialmente la vettura di serie più veloce al mondo, capace di una velocità massima di 325 km/h (raggiunti in prova a Nardò) ed ha un comportamento stradale ottimo, frutto anche del coinvolgimento nel lavoro di sviluppo di Sandro Munari.

La Diablo ha l’impostazione meccanica classica delle 12 cilindri di casa Lamborghini, con il motore 5,7 litri, 4 alberi a camme in testa e 4 valvole per cilindro, dotato di iniezione elettronica multi-point, capace di sviluppare 492 Cv e quasi 60 kgm di coppia, in posizione longitudinale posteriore.

Malgrado sia lussuosamente rifinita, con interni in pelle, aria condizionata, vetri elettrici e sedili regolabili elettricamente, la Diablo è ancora una vettura dura e pura, con la trazione sulle sole ruote posteriori, nessun ausilio elettronico alla guida ed il servosterzo disponibile solo a partire dal 1993.

Anno in cui arriva la Diablo VT, la prima supercar Lamborghini a quattro ruote motrici. Nel 1993 è la volta della serie speciale SE30, a ricordare i 30 anni dalla nascita dell’azienda, con la potenza aumentata a 523 Cv.

Al Salone di Ginevra del 1995 debutta la Diablo SV, con la sola trazione posteriore, potenza di 510 Cv e alettone posteriore regolabile. Nel dicembre dello stesso anno viene commercializzata anche la Diablo VT Roadster, prima 12 cilindri Lamborghini “aperta” prodotta in serie, caratterizzata da una linea leggermente rivista ed offerta soltanto in versione 4wd.

Nel 1999, a seguito dell’acquisto di Automobili Lamborghini da parte del gruppo Audi, viene presentata la Diablo SV “restyling” disegnata da Luc Donckerwolke, il primo designer interno di Lamborghini.

Seguono le versioni VT e VT Roadster, tutti e tre i modelli portano evidenti segni di ammodernamento con una linea e gli interni rivisti. Dal punto di vista meccanico, il motore, adesso con 529 Cv, è equipaggiato con la fasatura variabile e, per la prima volta su una Lamborghini, con l’impianto antibloccaggio dei freni.

La Diablo, realizzata anche in serie speciali o da competizione con motori da 6 litri, è stata la Lamborghini prodotta nel maggior numero di esemplari: 2903 unità in totale. È rimasta in produzione fino al 2001, sostituita dalla Murciélago. Marmorini A metà anni ’80 la vecchia ma sempre valida Countach inizia a sentire il peso del tempo.

Il progetto di Paolo Stanzani, avviato nel 1971, definito tre anni più tardi e aggiornato negli anni con sviluppi piccoli e grandi (come la testa a 16 valvole sviluppata da Giulio Alfieri) segna il passo.

Non tanto dal punto di vista tecnico, e men che meno estetico (la linea di Bertone-Gandini era talmente moderna e innovativa alla presentazione da avere rendita eterna) ma per le pressanti richieste che arrivano dal mondo esterno.

Che vuole essere sempre più “pulito” e “sicuro”. Tradotto: serve adeguare l’auto alle richieste più stringenti in termini di sicurezza ed emissioni inquinanti. La Countach non può più soddisfare le richieste in sede di omologazione.

Bisogna rinnovare, dunque, ma come? L’operazione non sembra facile, soprattutto a causa della cronica mancanza di fondi in cui si dibatte la Lamborghini Automobili.

Non manca poi un certo timore di sbagliare: la Countach è un totem, un simbolo, non semplice da sostituire.

Per fortuna però a Sant’Agata ci sono molti tecnici e molto validi, come Luigi Marmiroli, per esempio, che ha avuto una lunga esperienza in F1 con Alfa Romeo e Ferrari e che guida la “truppa” di tecnici (un’ottantina, non pochi considerando i circa 400 dipendenti totali), insieme a Giulio Alfieri.

Alla fine prevale l’idea di fare una Countach moderna, cioè di evolvere il concetto, che ben rappresenta la Casa del Toro sia come estetica sia nella meccanica e nelle prestazioni senza compromessi.

Quindi, migliorare i punti di forza e adeguare alle nuove esigenze ciò che è vecchio. “Tra i motivi che spinsero gli azionisti a commissionarmi la macchina per sostituire la Countach - ha ricordato Marmiroli nel libro di Daniele Buzzonetti sui 50 anni della Casa bolognese, edito da Artioli di Modena - vi era quello riguardante le nuove normative di omologazione, più stringenti soprattutto in America, specie quella per i gas di scarico.

Abbattere le emissioni inquinanti significava montare l’iniezione elettronica, e qui iniziavano i problemi. Le alternative erano soltanto due: Bosch o Magneti Marelli. I tedeschi chiedevano investimenti in prototipi e soprattutto produzione inarrivabili per noi; la ditta italiana era un po’ più abbordabile, ma avemmo l’impressione che Ferrari e Fiat avessero posto un veto al possibile accordo.

A quel punto, decidemmo di gettare il cuore oltre l’ostacolo e di sviluppare un’iniezione nel nostro Reparto Esperienze. Con l’aiuto, indispensabile, di una piccola azienda bolognese nata da poco, la EFI di Piero Campi, ex-Marelli. Quando nel 1987 Lamborghini fu acquisita da Chrysler, la nostra centralina elettronica era quasi pronta. E alla presentazione della Diablo era un punto di orgoglio per tutta l’azienda”. Iacocca Marmorini cita l’arrivo della Chrysler: la grande Casa americana acquista Sant’Agata non per salvarla dall’ennesimo tracollo (i proprietari fratelli Mimran avevano lavorato bene) ma perché la ritiene un fiore all’occhiello della sua politica globale. A guidarla è quel Lee Iacocca che da giovane dirigente Ford aveva immaginato l’acquisizione della Ferrari, e poi avviato l’operazione Le Mans (quattro vittorie dal 1966 al 1969) con Carroll Shelby. Insomma, uno competente e appassionato.

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E in effetti Lamborghini in quegli anni ha finalmente tutto quello che serve a una piccola Casa per crescere ed essere redditizia, un fiore all’occhiello: “Quando gli americani arrivarono a Sant’Agata - ricorda ancora Marmorini -, ovviamente vollero mettere qualcosa di loro sul progetto, ma senza prevaricare.

Il vice presidente del loro centro stile, che si avvaleva di qualche centinaio di disegnatori, collaborò insieme a Gandini nella definizione di qualche dettaglio, anche migliorandolo come lo stesso Gandini riconobbe. Iacocca poi aveva grande simpatia per noi Italiani, e ci mise a disposizione i suoi tecnici senza pretendere nulla.

La collaborazione era totale, tanto che si pensò di creare un centro stile comune a Modena, vicino a Lamborghini Engineering, che pure era stata creata sotto la spinta di Chrysler”.

Qui Marmorini non cita il fatto che l’abitacolo della Diablo, nella prima versione disegnata da uno stilista dei “loro”, non fosse esattamente adatto a una supercar italiana… Ne parleremo più avanti.

Il progetto P132, che darà vita alla Diablo, si distacca nettamente dalla Countach non nella filosofia automobilistica, ma nella realizzazione; cosa che ha a che fare anche con la nuova disponibilità economica. Il “controllo qualità”, concetto in precedenza sconosciuto a Sant’Agata (e non soltanto lì) e importato dagli Americani, è responsabile dei miglioramenti più evidenti nel procedimento di industrializzazione del nuovo modello.

Il telaio, per esempio, resta tubolare in acciaio ma con rigidità differente a seconda dei compiti cui sono chiamate le varie parti: più deformabile davanti; robustissime e saldate al tetto in acciaio quelle in corrispondenza dell’abitacolo.

Il tunnel centrale, poi, è in fibra di carbonio per essere rigido ma anche leggero. A Sant’Agata studiano la fibra da parecchio tempo, sono all’avanguardia in questo settore, grazie anche alla passione e competenza di un tecnico che farà strada: Horacio Pagani.

Le parti di carrozzeria sono in composito, leghe di alluminio e acciaio (il tetto). Una sapiente miscela di materiali che permettono di contenere il peso pur con robustezza e rigidità di riferimento. Per le questioni di omologazione tuttavia lo scoglio principale da superare è quello delle emissioni allo scarico, dunque ha a che fare con lo sviluppo del motore.

Il lavoro è complessivo e va ben oltre la “semplice” adozione dell’iniezione elettronica. La cilindrata è portata a 5,7 litri, ma il V12 risulta più compatto nelle dimensioni e più leggero, tutto in alluminio ma con una lega del tutto diversa dalla precedente usata sulla Countach; le teste hanno le quattro valvole per cilindro modificate nella disposizione per ottenere un disegno della camera di combustione più efficiente.

I risultati del lavoro sono ottimi: più potenza, migliore rendimento e dunque minori emissioni, tanto che si ottiene facilmente l’omologazione sia in America sia in Giappone. Il tutto aumentando la potenza dai 455 Cv dell’ultima Countach a 492 Cv e nonostante la presenza dei due grossi catalizzatori. La valigia del designer Non è semplice “comunicare” all’esterno la mole di lavoro per un progetto così importante in seno a una piccola Casa come la Lamborghini di trent’anni fa. Ma in effetti, forse, nemmeno ce n’è bisogno: quello che conta è conquistare la scena, mantenendo la “firma” del Toro, per esempio con le porte ad apertura verticale.

La scena è assicurata, anche da fermo la Diablo prepara il pubblico al ruggito che ascolterà una volta messa in moto, alla partenza a razzo con enormi pneumatici posteriori da 335 mm che sgommano anche in terza e tuttavia l’accelerazione che brucia un chilometro in 22”, e ancora c’è da innestare la quinta marcia, quando si viaggia ormai a 250 km/h! Ce n’è abbastanza per conquistare la clientela più esigente in termini di prestazioni, e in effetti va proprio così: la nuova Lamborghini conosce subito un successo di vendite molto promettente (607 esemplari nel solo 1991, a cui si aggiungono i trenta di fine ’90), che durerà fino al 2001 per undici anni, dieci versioni e… tre proprietari.

Nel 1992 infatti la crisi finanziaria globale costringe Chrysler a cedere il suo “fiore all’occhiello” a una cordata di imprenditori guidati dal figlio del presidente dell’Indonesia Suharto, che nel 1998 cedono a loro volta ad Audi, tuttora proprietaria di Lamborghini. E il design dell’abitacolo della Diablo, direte voi? “Il design dell’interno non appassionava granché Gandini - è ancora Marmorini a parlare - che lasciò la palla senza problemi a Bill Dayton, appositamente trasferito a Sant’Agata”. L’ingegnere italiano non aggiunge altro, ma questo Dayton certo di abitacoli di supercar non ne capiva molto…

Il cruscotto della prima Diablo è di dimensioni esagerate, mai viste prima, e appoggiato sul piantone di sterzo sembra una valigia fuori posto. Brutto e in contrasto con l’ariosità dell’ambiente, molto più vivibile di quello della Countach, si guadagna gran parte delle critiche della stampa specializzata nei confronti di questa nuova Lamborghini, per il resto quasi assenti. Nel 1993, con la VT, sarà adeguatamente sistemato.

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