Ma vediamo come è fatta questa automobile straordinaria. Il prototipo R9R del 1989 deriva dalla Jaguar XJR-9 che ha vinto la 24 Ore di Le Mans, soprattutto nella meccanica da cui riprende la disposizione meccanica, con il V12 di 6 litri (7 litri per la XJR-9) dotato di distribuzione monoalbero con due valvole per cilindro.
La potenza specifica è però volutamente molto inferiore: 100 Cv/litro sul prototipo di Gruppo C, contro i 75 Cv/litro della XJR-15; (che significano, comunque, una potenza di 450 Cv a 6.250 giri con una robusta coppia di circa 57 kgm a 4.500 giri). Correttamente, i tecnici inglesi ritengono di privilegiare l’affidabilità della meccanica, pur con prestazioni assolute notevoli.
D’altra parte, i piloti del trofeo devono partire ad armi pari, dunque è inutile spingere sulle prestazioni più di tanto; inoltre l’affidabilità del V12 7.0 è stata un’arma vincente anche per la vittoria nella maratona francese. Il V12 è sviluppato da JaguarSport e TWR con elementi specifici come l’iniezione elettronica Zytec sequenziale, ed è un motore leggero: pesa 240 kg compresi frizione e accessori, tra cui anche lo scarico.
Anche i pistoni sono in lega leggera, e la lubrificazione è a carter secco; il cambio, infine, è un sei marce realizzato da TWR, con rapporto finale modificabile secondo le esigenze dei circuiti. La XJR-15 è progettata da Tony Southgate, grande tecnico della Formula 1 anni ’70 (sue erano le prime Arrows, favolose nella loro livrea oro Warsteiner) nonché progettista della stessa XJR-9 del mondiale.
E se lo scopo di tutta questa operazione è soprattutto commerciale e sportivo, per i tecnici Jaguar non è da meno quello tecnico: un’automobile di queste prestazioni (oltre 300 km/h di velocità massima) permette di esplorare l’applicazione di materiali plastici e compositi in condizioni estreme e di valutarne altresì l’applicazione eventuale nella produzione di grande serie.
Detto della meccanica, telaio e carrozzeria sono interamente in fibra di carbonio, prodotti da ASTEC, una società del gruppo TWR (che a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 è una vera potenza nell’ambito dell’automobilismo sportivo), con base nel Derbyshire e specializzata nella lavorazione del carbonio, all’epoca materia ancora piuttosto esotica. Tutto il resto della XJR-15 è prodotto e realizzato all’interno di JaguarSport.
Le sospensioni sono a ruote indipendenti, con elementi in alluminio per alleggerire le masse non sospese e ammortizzatori Bilstein non regolabili, ma ovviamente dotati di una taratura specifica per l’uso in circuito. Il sottoscocca è profilato per ottenere il massimo dell’effetto suolo, secondo i dettami in voga sulle auto Sport Prototipo del periodo, con estrattori posteriori dell’aria. Il peso contenuto in soli 1.050 kg porta il rapporto peso/potenza di questa Jaguar all’eccellente valore di 2,33 kg/Cv, cosa che richiede un impianto frenante capace: dischi in acciaio ventilato con pinze AP Racing a quattro pistoni.
È un vero peccato che la rarità di quest’auto non consenta nemmeno di immaginare un seppure breve test: in Italia non crediamo ve ne sia nemmeno un esemplare, ma se fosse immaginiamo il godimento del suo proprietario al momento di farla scendere dal carrello, in circuito, e mettersi al volante.
Oppure, addirittura, arrivare in pista dopo una galoppata autostradale tra lo stupore degli altri automobilisti che si vedano superati da quest’auto sconosciuta e sinuosa, con la linea disegnata da Peter Stevens, che in seguito avrebbe progettato McLaren F1 e BMW V-12 LMR.
Alla fine di Jaguar XJR-15 se ne sono prodotti 53 esemplari, di cui 27 con specifiche (e omologazione) stradale, anche se non per tutti i Paesi. Tra quelli dove si sarebbe potuta vendere c’era anche l’Italia, anche se all’epoca questa supercar ebbe una concorrente interna: la XJ220. Quest’ultima, di cui almeno tre esemplari furono immatricolati anche nel nostro Paese, fu però un modello controverso, una supercar a metà, nulla a che vedere con la purezza della XJR-15. Che, tra l’altro, diventa così la prima auto stradale al mondo con telaio in materiali compositi (fibra di carbonio e kevlar).
Uno di questi esemplari, il telaio numero 028, è stato battuto all’asta RMSotheby’s di Monterey del Ferragosto scorso, allo stratosferico prezzo di oltre 1,9 milioni di dollari. Sorprendente, per certi versi, dato che la generazione delle supercar anni Novanta non è agli onori della cronaca. Ma evidentemente il marchio e il Dna di quest’auto sono riconosciuti al di là della brevità della sua carriera, non soltanto agonistica. Ritorno a Silverstone Il 30° anniversario della Jaguar XJR-15 e del Jaguar Intercontinental Challenge è stato celebrato alla recente Silverstone Classic, evento tenutosi dal 30 luglio al 1° agosto scorsi.
Non poteva esserci sede più appropriata per l’evento, visto che le vetture erano prodotte a Bloxham, a mezz’ora di macchina da Silverstone, oltre al fatto che qui si disputò una gara del trofeo. E che gara! Nel 1991, sedici Jaguar XJR-15 si diedero battaglia intrattenendo il pubblico che si fermò a guardarla dopo il GP d’Inghilterra; pubblico già inebriato dalla vittoria di Nigel Mansell su Williams. E fu una gara piena di colpi di scena, con cinque auto soltanto al traguardo e la vittoria di Juan Manuel Fangio II, 45 anni dopo l’ultima vittoria al GP d’Inghilterra del suo leggendario zio; secondo fu Bob Wollek, terzo l’idolo locale Ian Flux, pilota nel popolarissimo campionato Turismo britannico.
Domenica 14 luglio 1991 è un giorno che Flux non ha mai dimenticato: «Ero l’unico britannico sul podio, i tifosi inneggiavano a me come se avessi vinto io il GP di F1!». Flux ha ricordato a Silverstone Classic quella giornata insieme a Fangio II e alla famiglia Walkinshaw: la gara si disputò su 20 giri, ricchi di incidenti. Tipico, quando fai correre i “pro” con auto tutte uguali… e poi, come ha ricordato Tiff Needell, altro noto pilota britannico, «la maneggevolezza della XJR-15 era a dir poco eccitante. In quelle tre gare ci fu una bagarre furibonda, per la gioia del pubblico e anche dei fotografi… La macchina, con un quarto del peso rappresentato dal motore, era impegnativa per tutti da portare al limite».
Di Francesco Pelizzari – Foto RM Sotheby’s