Può un coupé italiano, che non si chiami Ferrari, Lamborghini o Maserati, nascere come vettura fine a se stessa, priva della berlina da cui normalmente deriva? La risposta è affermativa, come avvenne nel caso della Fiat Dino coupé che aveva per “parente” la sola versione spider. Fu, un’eccezione, per una Casa italiana negli anni ’60, dovuta all’accordo che la Fiat aveva siglato il primo marzo 1965 con Enzo Ferrari, al quale serviva un motore per correre in Formula 2. Stando al regolamento allora in vigore, il motore, con frazionamento non oltre sei cilindri e cilindrata massima 1.6, doveva derivare dalla produzione di serie, da una vettura costruita in almeno 500 esemplari.
Se il V6 a Maranello si poteva costruire, mancava la vettura stradale con i requisiti richiesti. E la sua realizzazione non era alla portata delle officine Ferrari: occorreva un partner. In Fiat invece si pensava a dare un’erede alla 2300 S coupé, la sportiva al vertice della gamma, e la proposta di Ferrari capitava a fagiolo. La Fiat avrebbe creato il modello adatto e Ferrari avrebbe potuto così esordire nel Campionato Europeo di F2. Fu un accordo, come si vede, nato sulla base della comune convenienza.
ELETTRONICA
La cilindrata di 1600 cc, tuttavia, non era sufficiente a motorizzare l’erede della 2300 S coupé, che aveva, oltretutto, un gran bel motore a sei cilindri in linea e si poneva sul mercato tra le GT di razza. A Maranello ne erano stati fabbricati motori V6 di cilindrata vicina per impieghi agonistici, ma nessuno andava bene per l’obiettivo proposto. Fu affidato così all’ingegnere Giancarlo Bussi il progetto di una nuova unità, idonea alla produzione stradale come alle corse. Ne risultò un motore con “V” di 65°, distribuzione bialbero, teste e basamento in lega leggera e canne-cilindro riportate in umido. Cilindrata di due litri per la Dino e 1.6 per la monoposto.
L’adattamento al corpo vettura Dino (come pure la produzione) fu compito Fiat, con successiva messa a punto dell’impianto di scarico presso la Ferrari. Questo V6 è un’unità motrice dalle caratteristiche sportive che prende i giri con facilità, grazie alla leggerezza delle masse in movi mento e alla perfetta equilibratura. La lancetta del contagiri incontra il rosso a 8.000 giri, ma il motore può superare senza danni gli 8.500. Per inciso, questo stesso motore, prodotto a Torino, prendeva la strada di Maranello per essere ospitato sotto il cofano della Dino 206 GT. Leggende metropolitane raccontano che le unità destinate a Maranello avessero 180 CV, vale a dire venti di più di quelle destinate alla Dino con il marchio Fiat, in realtà non vi era alcuna distinzione sostanziale tra quelli preparati per la “Dino” piemontese e quelli destinati alla “Dino” emiliana. Tre carburatori a doppio corpo Weber provvedono a inviare ai cilindri la miscela aria-benzina, mentre l’accensione -una “chicca” per l’epoca, usata anche nei motori Ferrari da corsa- è elettronica del tipo Marelli Dinoplex a scarica capacitiva. La trasmissione prevede un cambio Fiat a cinque rapporti e un differenziale Borg&Warner autobloccante al 25%.
CAMBIO
Dolcezza di funzionamento e precisione degli innesti sono due caratteristiche salienti del cambio e se pensiamo che l’autobloccante era all’epoca un accessorio poco diffuso anche su sportive di più elevata potenza e cilindrata, possiamo ben immaginare lo sforzo fatto per collocare la Dino su un piano di eccellenza tecnica, aspetto confermato, tra l’altro, dall’impianto frenante Girling a quattro dischi con servofreno a depressione attivato elettricamente. Sotto questo punto di vista, anzi, la Dino coupé vanta un primato: è la prima vettura di serie europea a montare i dischi autoventilanti con fori radiali, secondo un brevetto americano della Kelsey- Hayes. Ma la Dino è anche una macchina ben strutturata, con un telaio robusto, dimostrato non solo dalle prove di crash-test, ma anche dal notevole grado di protezione assicurato agli occupanti nel caso di vetture coinvolte in incidenti stradali.
Alla progettazione aveva collaborato l’ingegnere Rudolf Hruska, all’epoca consulente Fiat, tecnico esperto nel calcolo delle scocche autoportanti delle automobili. Il punto critico fu la sospensione posteriore a ponte rigido con balestre longitudinali, uno schema all’epoca ancora valido per una sportiva e che stava dando risultati più che soddisfacenti sulla spider, ma che nel caso del coupé, malgrado montasse al retrotreno (come nella spider) quattro ammortizzatori, si rivelò poco adatto per un’auto che doveva coniugare comportamento sportivo, piacere di guida e comfort. In Fiat, in vista del coupé, era stato studiato in precedenza, con esito positivo, uno schema di sospensione posteriore De Dion su una spider di pre-serie, ma non ci fu il tempo per collaudarlo sul coupé, visto che tra la presentazione della spider al Salone di Torino del 1966 e quella del coupé, nel marzo del 1967 al Salone di Ginevra, intercorsero solo quattro mesi. Forse si sarebbe potuto rischiare, anche se alla decisione di accantonare il De Dion nel coupé non furono estranei motivi legati alla razionalizzazione delle linee di produzione.
Non pensiamo, però, che la Fiat avesse creato la Dino solo per andare incontro alle esigenze della Ferrari che all’epoca, lo ricordiamo, non era ancora entrata nell’orbita del Lingotto. Diciamo che fu colta la palla al balzo per mantenere costante la presenza Fiat in una nicchia di mercato intermedia tra le sportive di cilindrata inferiore a due litri e le cosiddette super-sportive. Che era il segmento dove si collocava un modello in forte ascesa come la Porsche 911, declinata a sua volta in versione aperta e chiusa.