21 February 2023

Citroën Méhari

La Méhari viene presentata alla stampa al campo da golf di Deauville il 16 maggio 1968, lontano dalle contestazioni studentesche che negli stessi giorni si svolgono a Parigi.

1/12

Nata con le contestazioni studentesche e per vent’anni simbolo di libertà, spensieratezza e anticonformismo, la coloratissima francese dalla carrozzeria di plastica e dal nome ispirato a un dromedario è oggi una classica apprezzata e piacevole da usare. E ci fa sognare l’estate di Michele Di Mauro Per natura non siamo mai contenti, tendiamo sempre a desiderare ciò che ci manca.

Fa parte dell’essere umani: l’insoddisfazione ci spinge a migliorarci ed è per questo il sentimento alla base della nostra evoluzione. Senza scomodare i massimi sistemi e prendendo ad esempio le piccole cose, l’estate ci manca il fresco, l’inverno vorremmo il caldo.

Tutto questo per dire... che a noi a febbraio manca l’estate, ed è per questo che abbiamo deciso di “spararci” una bella “spiaggina”, una di quelle auto che più estive non si può: la Citroën Méhari.

Leggera, allegra, scopertissima, spesso colorata e sgargiante, la Citroën Méhari è una piccola autovettura per il tempo libero dall’insolita carrozzeria realizzata in ABS, montata su pianale e meccanica della sorella Dyane, modello più “civile” ma ugualmente anticonvenzionale, di cui abbiamo parlato sul numero scorso.

La Citroën Méhari si colloca nella fase finale dell’evoluzione del filone delle “spiaggine”: piccole utilitarie rivedute e corrette in chiave estiva che conoscono il loro momento di massimo splendore tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando il desiderio di lasciarsi alle spalle le brutture e le tristezze della guerra e le fatiche della ricostruzione genera diverse categorie di veicoli da tempo libero da vivere en plein air.

Celebri, e oggi apprezzatissime, sono le creazioni di Ghia su base Fiat Nuova 500 e 600, ma in questi anni fioriscono un’enorme quantità di creazioni più o meno artigianali, che coinvolgono anche le Fiat 850 e 500 Giardiniera, le Bianchina, le Mini e tante altre vetturette economiche, trasformate in modelli aperti dal taglio più prestigioso.

Un tratto distintivo delle “spiaggine” è quasi sempre la produzione dalla tiratura piuttosto limitata, dovuta sia all’artigianalità delle trasformazioni, spesso pure costose, sia al limitato range di utilizzo, in un periodo in cui la maggior parte delle famiglie possiede una sola vettura che deve assolvere a tutti i compiti.

Le cose cambiano nel 1964, quando gli inglesi inventano quell’autentico fenomeno di costume che è la Mini Moke, primo vero caso di vettura totalmente aperta prodotta in volumi importanti e ad un prezzo accessibile. Paradossalmente arriva da una delle terre più piovose al mondo, ma chi conosce gli inglesi sa che per loro il meteo non è mai stato un problema, come testimonia l’incredibile percentuale di vetture spider ideate e prodotte oltremanica.

In versione plastica Il successo della Moke non sfugge a Roland de la Poype, imprenditore francese di nobili origini nonché titolare della SEAB (Société d’Exploitation et d’Application des Brevets, Società di sperimentazione ed applicazione dei brevetti).

De la Poype intuisce che la piccola inglese sta aprendo un nuovo segmento di mercato, che egli vuole sfruttare proponendo alle Case costruttrici nazionali qualcosa di simile. Tra i suoi interlocutori c’è Pierre Bercot, presidente della Citroën, che decide di valutare l’idea, coinvolgendo nel progetto il designer Jean-Louis Barrault. Il team decide di lavorare sul telaio a pianale della 2CV in versione furgonetta, perfettamente piano e sgombro e funzionale ad ospitare qualsiasi tipo di realizzazione ex novo.

Al posto dei pannelli metallici della 2CV si opta per una carrozzeria realizzata interamente in ABS, un materiale plastico antiurto colorato direttamente in stampaggio, col duplice scopo di risparmiare peso, facilitando il compito al pigro bicilindrico, e impedire la formazione della ruggine, data la vocazione spiccatamente marittima del nuovo modello.

Lo sviluppo della carrozzeria parte da una maquette realizzata addirittura in cartone, a cui fa seguito la prima realizzazione in pannelli di ABS lisci, sui quali compaiono poco dopo le caratteristiche nervature di irrobustimento. Sugli esemplari di preserie la meccanica passa dal 425 cc della 2CV al 602 cc da circa 30 CV della Dyane, che pure con la 2CV condivide il telaio.

Derivano dalle due popolari utilitarie anche le sospensioni, l’impianto frenante, lo sterzo e il cambio, mentre l’abitabilità ne esce sacrificata a causa della riduzione in lunghezza del telaio di ben 22 cm per risparmiare ulteriormente peso: il risultato finale ferma l’ago della bilancia ad appena 475 kg a secco, utili per permettere al piccolo propulsore raffreddato ad aria per spingere la vettura a 110 km/h in configurazione chiusa e 95 km/h in modalità tutto aperto.

A Roland de la Poype, che sperava di acquisire la produzione della vettura presso i propri impianti, Bercot affida in realtà solo l’assemblaggio dei primi 2.500 esemplari, oltre ai 12 di preserie destinati alla presentazione per la stampa, allestita al campo da golf di Deauville il 16 maggio 1968, lontano dalle contestazioni studentesche di Parigi. La produzione in serie viene invece assegnata allo stabilimento Citroën di Quai de Javel.

La presentazione al pubblico del nuovo modello si tiene il 3 ottobre dello stesso anno al Salone dell’automobile di Parigi, dove vengono ordinate oltre 500 Méhari: il nome riprende quello di una razza di dromedari da corsa della regione del Mahra, nel sud dell’Arabia. Un’ispirazione dovuta alla resistenza della bestia, alle doti di animale da soma, alla vocazione per i climi caldi, all’andamento “ondeggiante” e ad una spiccata sobrietà nel bere.

Meno di così non si può

Se la 2CV da cui deriva è una vettura dalle dotazioni elementari, la Méhari entra a pieno titolo nella top ten delle automobili più spartane della storia: sedili, volante, leva del cambio (rigorosamente “ad ombrello”), pedali. Stop. Niente rivestimenti, niente vernice (i pannelli della carrozzeria escono dagli stampi già colorati), niente accenni, neppure minimi, al comfort. Addirittura le prime versioni non hanno neanche le porte, sostituite da pannelli in tela con la finestratura in vinile trasparente.

Non esiste neppure una vera separazione tra abitacolo e bagagliaio, e i posti posteriori possono essere rimossi per ampliare il piano di carico fino a 1.2 mq di superficie per 400 kg di portata. Come le sorelle da cui eredita i longheroni e le sospensioni indipendenti, la Méhari beccheggia ma soprattutto rolla vistosamente, con quell’aspetto precario sottolineato anche dalle esili gomme da 135, ma nella realtà insospettabilmente sicuro.

Anzi, la vettura è piacevolissima ed estremamente divertente da guidare, anche se non in senso classico, dato che l’accelerazione è prossima a quella di un bradipo, mentre i 100 km/h valgono almeno doppio in quanto ad emozioni e... fifa. Se poi si viaggia a parabrezza abbattuto, anche i 90 sono sufficienti per emozioni degne della velocità Warp della nave spaziale Enterprise. Il rovescio della medaglia di una vettura tanto pratica sul corto raggio è la pressoché impossibile usabilità su medi e lunghi percorsi.

La Méhari non ha vani di carico che non siano a vista, ha un’accessibilità posteriore degna di un acrobata e, nonostante l’ampio vano di carico, non è pensata per ospitare il “gazebo” che funge da tetto una volta ripiegato. In pratica bisogna scegliere la configurazione dell’auto prima di uscire di casa: se volete viaggiare aperti, il tendalino resta in garage; se partite chiusi, ci restate fino al rientro, a meno di non avere un posto sicuro dove lasciare temporaneamente la copertura.

Infine, se avete bisogno di accedere al vano motore, anche solo per recuperare il ceppo bloccaruota di legno in dotazione, dovete asportare completamente il cofano: sull’altare della leggerezza e dell’economia sono state sacrificate infatti pure le cerniere, inutili “frivolezze” per un’auto pensata e sviluppata né per correre né per viaggiare comodi, quanto piuttosto per garantire doti sopra la media in termini di trazione e mobilità su terreni accidentati, assieme a un’affidabilità e una robustezza da fuoristrada, senza però pesare in termini di costi di gestione e manutenzione.

Un approccio pratico, funzionale e minimalista comunicato dalle forme e confermato dai fatti, che fa scuola e breccia nel cuore degli appassionati che la scelgono per quasi vent’anni, durante i quali il progetto iniziale viene aggiornato in misura davvero minima. Le speciali Rispetto agli esemplari di preserie presentati a Parigi e a Deauville, la vettura definitiva mostra solo piccoli aggiustamenti: i cerchi ruota perdono i coprimozzi, gli indicatori di direzione anteriori passano da sotto i proiettori ai lati, i fanalini posteriori in stile 2CV diventano a gemma, cambia l’alloggiamento della ruota di scorta. Per il resto, la macchina è identica. I primi aggiornamenti arrivano alla fine del 1969, con una nuova disposizione delle luci frontali, seguiti l’anno dopo da nuove portiere rigide, costruite parzialmente in plastica, e il debutto di una variante a soli due posti omologata come autocarro, per abbattere i costi fiscali. Contemporaneamente appaiono un nuovo retrovisore esterno circolare e un elementare dispositivo antifurto.

Nel 1972 la gamma si allarga con una versione denominata Méhari Type Armée e destinata all’impiego militare. Pensata per essere sfruttata nelle retrovie come mezzo di trasporto leggero, non prevede alcuna munizione ma semplicemente una maggior affidabilità, che nel concreto è fornita dalla presenza di due batterie servizi collegate in linea. Esercito e Polizia francese ne ordinano 11.500 esemplari. Nel 1975 viene rivisto il cruscotto, ora dotato di voltmetro, mentre nel ‘77 l’impianto frenante diventa a doppio circuito frenante e lo sterzo riceve un diverso grado di demoltiplicazione per diminuire lo sforzo in manovra. Dal 1978 i freni anteriori sono a disco e il frontale monta una nuova calandra smontabile, mentre gli indicatori di direzione ritornano sotto i fari.

Nel maggio del 1979 arriva la Méhari 4×4, caratterizzata da un nuovo ponte posteriore con differenziale bloccabile, cambio a 7 marce (di cui 3 ridotte) e impianto frenante a 4 dischi: una configurazione che le permette di affrontare pendenze fino al 60%, pur mantenendo un peso a vuoto di soli 555 kg. Ancora più vicina ad un vero fuoristrada, la Méhari 4x4 è adottata persino come mezzo di assistenza durante i Rally africani. In concomitanza col lancio della nuova versione, tutta la gamma viene aggiornata con un nuovo quadro strumenti preso dalla contemporanea Citroën LNA. Nel 1982 la 4x4 viene rivista nelle sospensioni, più basse da terra, e nella carrozzeria, allargata in corrispondenza dei passaruota.

Così modificata resiste soltanto un anno: nel 1983 esce infatti dai listini, lasciando il posto alla serie limitata Azur: una versione di successo, tanto da esaurire in fretta i 700 esemplari inizialmente previsti ed essere successivamente integrata nella gamma standard. Si distingue dalle altre Méhari per la carrozzeria in bianco con portiere, calandra e capote di color azzurro, abbinata ai sedili in tessuto a fasce bianche e azzurre. Contemporaneamente alla Azur, nei mercati della penisola iberica viene lanciata la Plage, con carrozzeria gialla abbinata a cerchi ruota bianchi, prodotta nelle nuove linee di produzione di Mangualde, in Portogallo. Seguono poi versioni minori come la Baby-Brousse, la Dalat, la FAF e pure una one-off dimostrativa con la carrozzeria trasparente.

Negli anni Settanta e Ottanta la Méhari furoreggia negli autonoleggi delle isole e delle località italiane, spagnole e greche, quale degno completamento di un’esperienza al sole e all’aria aperta in un’epoca in cui non esistono quad e l’unica alternativa per viaggiare totalmente scoperti è il dorso di mulo. Con, in più, il brivido del cambio che, per i non avvezzi, può rivelarsi un incubo: chi ha frequentato Ponza o Capri a quel tempo probabilmente ricorderà qualcuna di queste Citroën ferme davanti a un muro o a un ostacolo, con a bordo quattro o cinque vacanzieri intenti a cercare disperatamente la retromarcia. Nel corso della sua lunga vita, la Méhari tenta pure la fortuna oltreoceano: tra il 1970 ed il 1971 un migliaio di esemplari viene venduto negli Stati Uniti, debitamente adattato al codice della strada americano con fari anteriori maggiorati, luci di retromarcia e di emergenza, e sempre nel 1971 la francesina sbarca pure in Sudamerica.

1/12

Le ultime news video

© RIPRODUZIONE RISERVATA