18 March 2016

Bellissime da corsa, la Lancia LC2

Dopo la Beta Montecarlo iridata, si prosegue con il neonato Gr. C. Motore potentissimo, progetto di Dallara, ma poca affidabilità. Scopo del programma in pista era migliorare la squadra Rally per le esigenze del Gr.B....

ANNI 80

Con l’inizio degli anni Ottanta, in casa Lancia sembrava che la febbre per le corse fosse salita alla massima temperatura. Ormai chiuso il capitolo d’oro della Stratos, si apriva un nuovo, strepitoso ciclo rallistico con la Rally 037 vincitrice del mondiale 1983. Questa, a sua volta, sarebbe stata sostituita dalla mostruosa Delta S4 Gr. B e poi dalla lunga epopea delle Delta Integrale. Non paga di questi incessanti impegni, nello stesso periodo la Lancia decideva di intraprendere un’altra avventura. Ancora una volta il palcoscenico era quello mondiale, ma la scenografia era rappresentata dai più bei circuiti sui quali si disputavano le gare del Campionato Mondiale Marche Endurance. Per la grande Lancia, quindi, si attendeva un ritorno alla pista dopo aver abbandonato la F1 a metà degli anni ‘50.

Direttore d’orchestra era, ancora una volta, il famelico direttore sportivo Cesare Fiorio, che voleva portare negli autodromi uomini e mezzi Lancia per arricchire il bagaglio di esperienze da riversare poi nei Rally. Con la rivoluzione regolamentare avvenuta nel 1982 e l’introduzione delle nuove specifiche tecniche per gli allestimenti sportivi delle vetture, le gare in pista vedevano il debutto della nuova categoria denominata Gr. C. Capisaldi del regolamento destinato a prototipi coupé biposto erano le misure (lunghezza 480 cm, larghezza 200 cm e altezza compresa tra 100 e 110 cm), il peso minimo di 800 kg (senza carburante) e il motore proveniente da un costruttore che avesse già omologato vetture in Gruppo A o B. Altro aspetto fondamentale era quello dei consumi. I serbatoi del potevano contenere al massimo 100 litri di benzina e il consumo era stabilito in 60 litri ogni 100 km (35 litri per la più piccola classe C2). A seconda della tipologia e della lunghezza della gara, infine, era anche stabilito un numero massimo di rifornimenti consentiti.

A livello aerodinamico si decideva di limitare l’effetto suolo con l’utilizzo di una superficie piana di 80 cm di lunghezza e 100 di larghezza da posizionare sul fondo subito dopo l’asse anteriore, e nessuna parte sospesa poteva trovarsi più in basso di questo piano di riferimento. Il che, tradotto, significava: niente “minigonne”. La Lancia si schierava nel rinnovato Mondiale Endurance con la LC2, ma la sua esperienza in questa specialità non nasceva dal nulla. La LC2, infatti, debuttava nella stagione 1983 come ultima evoluzione delle precedenti Beta Montecarlo Turbo Gr. 5 (1979-1981) ed Endurance Turbo Gr. 6 (1982-1983). La Beta aveva vinto duemondiali di fila, nel 1980 e 1981, mentre la Endurance (conosciuta anche come LC1) non poteva prendere punti iridati poiché nel frattempo era subentrato il regolamento del Gruppo C, ma in Lancia non erano riusciti ad approntare in tempo una vettura idonea.

V8 FERRARI

Per scoprire le origini della LC2 bisogna tornare al 1979 con la nascita della Beta Montecarlo Turbo. Questa era dotata di scocca e sospensioni messe a punto da Gian Paolo Dallara. Il motore manteneva il basamento del quattro cilindri Beta 1.800 cc destinato al mercato americano, ma con cilindrata ridotta a 1.4 per rientrare nella categoria 2 litri a fronte dell’adozione della sovralimentazione (1.425 cc x coefficiente 1,4 = 1.995). Altre caratteristiche del propulsore erano le quattro valvole per cilindro (con testa ereditata dalla Fiat 131 Abarth), l’alimentazione meccanica Kugelfischer e la presenza dello scambiatore aria/aria. La potenza massima era nell’ordine dei 400/450 CV. La carrozzeria manteneva la cellula centrale della Lancia Beta Montecarlo di serie, ma con pianale in alluminio per ridurne il peso.

All’estremità posteriore un telaietto tubolare inglobava il gruppo motopropulsore e le sospensioni McPherson, mentre quello anteriore sorreggeva il sistema a triangoli sovrapposti. Lo stesso motore era poi utilizzato per la successiva Lancia Endurance Turbo Gr. 6 dotata di un nuovo telaio monoscocca (con centine di rinforzo in magnesio per le sospensioni anteriori e il gruppo motore/cambio posteriore) e carrozzeria aperta. L’esperienza accumulata in queste prime quattro stagioni di corse in pista (1979-1982) risultava utile al reparto corse per la progettazione della LC2. Gianni Tonti era ancora il tecnico di riferimento sotto la cui direzione fu realizzata questa vettura, e lo stesso era successo sia per la Beta, sia per la Endurance. Nel caso della LC2 il motore sarebbe arrivato dalla Ferrari: un 8 cilindri a V di 2.599 cc (salito a 3.014 cc nel 1984), quattro valvole per cilindro, alimentato con un’inedita iniezione elettronica indiretta della Weber e sovralimentato con due grosse turbine KKK. La potenza massima era stimata in circa 950 CV.

Molta importanza era data allo studio del telaio monoscocca e ancora una volta si accordava la fiducia all’ingegner Gian Paolo Dallara, che nella sua officina di Varano de’ Melegari ne curava la progettazione insieme ai gruppi sospensione. La monoscocca era costruita in avional con le centine anteriore e posteriore in magnesio. Un roll-bar in titanio completava la dotazione di sicurezza della cellula. La linea esterna era definita presso la galleria del vento del Centro Ricerche Fiat sotto la responsabilità dell’ingegner Giorgio Camaschella, con l’ausilio dell’uomo Abarth Giorgio Rossotto.

TORCEVA MA ANDAVA

Nel 1984 Tonti passava all’Alfa Romeo; Claudio Lombardi diventava direttore tecnico dell’Abarth e il progetto LC2 passava sotto la direzione dell’ingegner Vittorio Roberti. «La macchina -ricorda oggi Roberti- aveva un ottimo potenziale, per certi versi superiore alle Porsche 956 che erano le nostre dirette concorrenti. All’inizio, però, avevamo grandi problemi di torsione del corpo vettura che mandavano in crisi anche gli pneumatici. Subivamo frequenti “dechappamenti” perché le coperture (prima Pirelli, poi Dunlop e infine Michelin) raggiungevano temperature troppo elevate. In una prima fase di sviluppo avevamo perfezionato l’unione tra la scocca e il motore, che aveva funzione portante e si era dimostrata la prima causa delle torsioni. In seguito modificammo l’architettura delle sospensioni posteriori: Dallara le aveva studiate in modo che i braccetti rimanessero sopra l’effetto suolo, ma in questo modo le ruote posteriori subivano degli scuotimenti eccessivi. Nel 1985 fu infine migliorata l’aerodinamica grazie alla collaborazione con la Michelin. A Clermont-Ferrand c’era una pista di prova dotata di una speciale bilancia che permetteva di misurare il carico istantaneo di ciascuna ruota con la vettura in movimento. Era una sorta di tombino quadrato sul quale si faceva transitare la vettura, anche ad alta velocità.La bilancia leggeva il carico della ruota anteriore, si azzerava e leggeva quello della posteriore. Eravamo andati a provarla con Alessandro Nannini e subito avevamo capito che la nostra configurazione era completamente sbagliata: l’alettone posteriore era troppo arretrato e così montato scaricava completamente l’anteriore». In tre anni di evoluzione, la LC2 arrivò a prestazioni di assoluto rilievo. «Nelle qualifiche di Monza nel 1986 -racconta ancora Roberti- facemmo primo e secondo tempo.

Riccardo Patrese, con la pole position, aveva segnato un crono che gli avrebbe permesso di stare in seconda fila nello schieramento di Formula 1». Da Lancia ad Alfa Romeo La storia della Lancia LC2 si chiude alla fine degli anni Ottanta. Nel 1988 l’Abarth è coinvolta dall’Alfa Romeo nella preparazione al mondiale Sport Prototipi. In quest’ottica, gli uomini dello Scorpione riacquistano dal Team Mussato una LC2 (telaio #006) su cui è montato un motore Alfa Romeo V10 di origine F1. Tale auto prende il nome di SE047 e, rispetto alle precedenti LC2, esteticamente differisce per il nuovo cofano posteriore, modificato per ospitare il motore più lungo e senza gli ingombri degli intercooler. «In Abarth eravamo tutti di estrazione rallistica -ricorda oggi l’ingegner Sergio Limone- perciò utilizzammo la SE047 per fare un po’ di esperienza prima di realizzare la successiva Sport Prototipo SE048 con il motore 12 cilindri di origine Ferrari. La LC2 V10 ci servì per valutare l’affidabilità del motore nell’uso diverso da quello per cui era stato progettato in origine, cioè su un’auto più pesante e in gare più lunghe. Permise poi la messa a punto di un sistema di acquisizione dati indispensabile per la definizione di un modello matematico dell’auto. Per questo genere di attività lavorammo in collaborazione con il Centro Ricerche Fiat di Orbassano».

La LC2 V10 è quindi ben presto abbandonata per dedicarsi alla SE048, una macchina completamente nuova -nata sotto la direzione tecnica di Claudio Lombardi- che dovrebbe adottare il marchio Alfa Romeo. Prototipo che però rimane esemplare unico (oggi conservato nel Museo Alfa Romeo di Arese) e non partecipa ad alcuna competizione a causa di un cambio di strategie aziendali, che puntano sul programma DTM con le Alfa Romeo 155. Tragedia in collaudo La Lancia LC2 -il cui progetto nasce nella primavera 1982 e arriva a conclusione circa un anno dopo- nell’anno del debutto non ottiene grandi risultati: complici i difetti di gioventù, arrivano soltanto pole position e una vittoria a Imola, nell’ultima gara 1983, con Teo Fabi/Hans Heyer. La vettura è spesso la più veloce del lotto in termini di prestazione pura: in più occasioni sfiora i 330 km/h. Nei tre anni successivi (1984, ’85 e ’86) la LC 2 non subisce grandi modifiche (a parte quelle già descritte), ma i risultati non sono eclatanti: nel 1984 una doppietta di Patrese/Nannini e Wollek/Barilla (1000 km di Kyalami), nel 1985 un successo di Patrese/Wollek/Baldi (24 Ore di Spa) e nel 1986 un secondo posto per De Cesaris/Nannini (Monza).

La produzione della LC2 conta 10 telai; anzi, per meglio dire, 9+1. I primi tre, completati nel 1983, sono utilizzati dalla squadra ufficiale. Lo 003 (che ottiene la vittoria a Spa nel 1985), dopo un incidente a Zeltweg nel 1986 con Bruno Giacomelli è replicato dal Team Mussato che gli assegna il numero 003B. Un ultimo telaio, #010, è stato allestito pochi anni fa mettendo insieme pezzi e ricambi che Mussato aveva rilevato dal reparto corse ufficiale. Così come accadde nel lontano 1955, quando la Lancia si ritirò dalla F1 in seguito alla morte del suo pilota Alberto Ascari, anche nel 1986 l’avventura nel Mondiale Endurance si conclude amaramente per la Lancia: con la morte del collaudatore Giacomo Maggi, avvenuta sulla pista prove della Mandria, il programma Endurance subisce lo stop quasi immediato, anche a causa degli scarsi risultati ottenuti e dall’assorbimento dei fondi da parte degli impegni rallistici. Quel giorno insieme a Maggi c’era il suo collega Valter Rostagno, che ci ha ricordato come avvenne l’incidente:

«Era il 21 giugno, stavamo facendo delle prove tecniche per l’uso della benzina congelata, una soluzione che in teoria avrebbe permesso di imbarcare una maggiore quantità di carburante. Io ero appena sceso dalla macchina. Facevamo quaranta giri ciascuno e casualmente avevo iniziato io. Casualmente, perché appena scaricata la macchina dal camion c’era il suo sedile montato e Giacomo aveva deciso di fare qualche giro giusto per provarla. Poi si era fermato chiedendo a me di fare la stessa cosa. Quindi avevamo montato il mio sedile. Dopo tre giri mi ero fermato, avevamo caricato la benzina e poi, visto che c’era già il mio sedile montato, avevo iniziato io il turno lungo dei quaranta giri. Poi ci eravamo dati il cambio, e dopo aver percorso quattro o cinque giri, Giacomo è saltato in aria. Forse per una gomma, o forse ha perso il controllo. Non lo so. So solo che mi ero appena seduto sulla Delta S4 per altre prove, mi stavo allacciando le cinture, ho alzato gli occhi e l’ho visto volare. Si andava a oltre 300 km/h».

NANNINI e FIORIO

Alessandro Nannini è stato uno dei tanti piloti italiani che faceva parte dello squadrone Lancia impegnato nel mondiale Endurance con la LC2 (e prima con la Beta Montecarlo e la LC1). Ed è stato quindi uno dei (fortunati?) ad aver corso sul filo dei 400 km/h. Ma, come dice il simpatico campione toscano: «Alla fine ci si abitua. Giù in fondo la strada si faceva piccolina, ma era difficile capire le sensazioni, anche perché non avevamo il contakm e le velocità ce le dicevano dopo, ai box… A Le Mans toccai i 398 km/h ma son sicuro che avrei potuto battere il record dei 401: purtroppo avevo già subito alcuni incidenti e non ho avuto il coraggio».

Nannini ha vissuto l’intera storia della LC2 perché, dopo aver vinto il campionato di Formula Fiat Abarth 1981, passa subito alla squadra ufficiale Lancia e messo al volante della Endurance Gr. 6 per disputare al Mugello l’ultima gara della stagione. «In quegli anni c’era tutto un altro sistema. I giovani piloti erano seguiti e aiutati ad emergere. Quando entrai in Lancia fui sempre affiancato ai piloti più esperti e grazie a loro imparai moltissimo». Cosa ricorda della LC2? «Che avevamo molti più CV delle Porsche, per questo nelle prove stavamo sempre davanti. Purtroppo in gara c’era il rovescio della medaglia, poca affidabilità e anche problemi con i freni. A Norimberga ricordo che l’impianto ha ceduto già dopo dieci giri. La LC2 era una vettura più adatta a gare di sei ore». Lei ha potuto guidare le auto da competizione più veloci di sempre: una bella soddisfazione. «È stata sicuramente una delle più belle esperienze di guida che abbia mai provato. Mi sono divertito e ho imparato tanto. Certo, c’è stato anche qualche bello spavento. Mi ricordo una sessione di test a Balocco in vista della 24 Ore di Le Mans. In pratica dovevamo fare una vera e propria simulazione di gara e alle sette della mattina, in fondo al rettifilo più veloce che diventa una semicurva a sinistra, a 350 all’ora cedette la sospensione posteriore destra e decollai letteralmente. La macchina volò per decine di metri. Fortunatamente non si fiondò sull’area dov’era stato allestito il box e dove c’era tutta la squadra ma andò dalla parte opposta. Il primo ad arrivare fu Bob Wollek. Mi chiese se ero ancora vivo e si prese un solenne “vaffa”».

CESARE FIORIO
Quando si parla di automobilismo “made in Italy”, spesso si parla con Cesare Fiorio, che tra gli anni ‘70 e i ’90 portò la Lancia sulla ribalta sportiva internazionale. Dalla Squadra Corse HF Lancia alla Ferrari e alla Minardi F1, Fiorio è stato artefice di trent’anni di corse.

Anche la parentesi del mondiale Endurance è opera sua: come mai decise di portare la Lancia in pista?

«Ero convinto che un’esperienza ad alto livello avrebbe giovato alle nostre attività rallistiche -spiega oggi Fiorio, nella foto a colloquio con il compianto Michele Alboreto-. In quel periodo i rally stavano cambiando, il livello tecnologico si stava elevando molto, e molto in fretta. Con l’introduzione del Gr. B si aprivano nuovi scenari legati alla progettazione delle automobili, che sarebbero diventate molto sofisticate. I Rally non erano più delle avventure, ma delle imprese dove non si doveva lasciare nulla al caso. Come nelle gare in pista. L’esperienza nell’Endurance ci servì per portare nuove tecnologie sulle strade, in primo luogo gli aspetti legati all’aerodinamica del veicolo, che mettemmo a frutto sulla Delta S4».

Con quale spirito si gettò nella nuova veste di direttore sportivo ai box anziché saltare da una prova speciale all’altra?

«Lo spirito era sempre lo stesso. Cambiavano gli scenari, ma gli schemi mentali rimanevano uguali. La gestione dell’attività sportiva, di una squadra, dei piloti, segue sempre delle regole precise che si applicano alle diverse attività senza mutare i principi di base». La LC2, ma anche le precedenti Gruppo 6 e Montecarlo Turbo, dimostrarono un buon potenziale. Ma raccolsero i frutti sperati? «Direi di si. Gare e campionati ne abbiamo vinti, pur confrontandoci con concorrenti di altissimo livello. Penso soprattutto alla Porsche, che aveva almeno due punti di vantaggio: vetture altamente collaudate e sviluppate nel tempo per essere affidabili. Insomma, erano dei trattori. E poi erano in tante: tante auto, tanti punti».

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