24 December 2021

EPOCA: ALPINE VS...ALPINE!

Nel blu dipinto di... rosso In Francia hanno “clonato” in chiave moderna la berlinetta che faceva battere il cuore per le prestazioni e il carattere pepatissimo. L’originale poteva essere sfruttata solo da piloti da… mondiale, l’odierna… pure, ma il suo limite è per forza di cose più alto

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Quarantaquattro anni separano le due Alpine, ma le case costruttrici sono abilissime a riproporre, uguali ma diverse, emozioni visive e tattili. In una A110 di oggi non si può non rivedere quella di ieri.

E lo stesso, tutto sommato, si può dire della guida, seppure con sfumature differenti e fondamentali. Una gran passione per le automobili, nata guardando il papà che aveva una autorizzata Alfa Romeo alle porte di Milano negli anni Cinquanta, e poi coltivata aiutando il genitore nelle vendite: “Da ragazzo facevo il venditore porta a porta, una volta si faceva così -racconta Giorgio Paglini, titolare di una concessionaria Renault a Busto Arsizio-. Si andava a proporre le auto nuove a chi già aveva una Alfa Romeo, o tentare di convincere chi aveva un’altra marca a passare al Biscione. Quegli anni sono stati una gran scuola”.

La Casa del Portello in quel periodo costruisce anche per Renault, le mitiche Dauphine ed R4, così anche l’attività dei Paglini prende la strada di Parigi: “È andata proprio così, a un certo punto la Règie si è fatta viva, tramite la filiale italiana naturalmente, con noi. Le condizioni erano buone e così abbiamo iniziato a vendere le auto della gamma francese. Che non era niente male, e soprattutto non soffriva delle problematiche legate alla politica con cui doveva invece fare i conti l’Alfa Romeo, purtroppo. La R4 si vendeva benissimo, poi quando arrivo la R5 ci fu un’impennata delle vendite clamorosa. E di lì l’attività si è sviluppata molto”.

Paglini, da grande appassionato di automobili e da concessionario Renault, non poteva rimanere insensibile al fascino delle Alpine: “L’A110 è sempre stata un sogno, ma anche un’automobile impegnativa da gestire, anche da un punto di vista commerciale. Ne vendemmo soltanto tre. A me piaceva moltissimo, ovviamente, avevo nemmeno trent’anni...”. Però ha aspettato un bel po’ per soddisfare quel desiderio, come mai? “All’epoca non c’era la mentalità di oggi, non mettevamo via le automobili che potevano essere un investimento, non c’era nemmeno il concetto dell’automobile storica. Poi -continua Paglini, che oggi ha una bella collezione con una ventina di Renault- l’uscita della A110 nuova ha riportato la mia attenzione sulla prima. Peraltro l’interesse non si è mai sopito. Da una decina d’anni ne cercavo una, ma era difficile trovare l’esemplare giusto. Anche se a dire il vero un paio di volte mi è capitato, ma mi sembrava sempre che la richiesta economica fosse esagerata. Mal me ne incolse…”.

Quindi questa 1600 S è arrivata dopo lunga attesa? “Si, mi è costata molto più di quanto avrei speso se mi fossi deciso prima, ma in compenso è stata una coincidenza, e io credo che queste cose non avvengano per caso. L’ho trovata sul Lago Maggiore, a tre chilometri da casa mia: due proprietari, quasi perfetta, con sedili “corsa” e cerchi Gotti in dotazione. Le serviva soltanto una rinfrescata”. Adesso che ha l’A110 originale e anche la sua reincarnazione moderna, può dirci se, con le dovute differenze, sono riusciti a ricreare lo spirito originario della vettura? “Secondo me si, ovviamente secondo i tempi -conferma Paglini-. Entrambe hanno prestazioni al massimo della categoria, per i rispettivi tempi. La differenza è che con la nuova si può anche andare… piano!

È un paradosso, ma è così: la guida veloce con la vecchia A110 era questione da iniziati, bisognava essere molto esperti perché il posteriore era molto ‘frizzante’, per così dire. E ad andar piano si rischiava di sporcare le candele, il motore girava poco pulito, e la macchina non era molto comoda. La nuova, pur piccola, permette di fare anche lunghi viaggi abbastanza comodamente, e in città si può usare come un’utilitaria. Si va forte anche con esperienza di guida limitata. Il discorso cambia, e ci si riavvicina come impegno alla prima A110, se si vogliono sfruttare tutte le prestazioni: 250 Cv sono tanti, si possono sfruttare tutti soltanto in pista. Ecco, diciamo che al massimo delle prestazioni richiedono un impegno simile, per motivi diversi. In generale, la vecchina era più nervosa e a 80 all’ora dava le sensazioni che la nuova ti da a 150…”.

Ricorda un aneddoto sull’Alpine? “Certo! Una delle tre che vendemmo l’acquistò un tizio che correva da anni nei trofei Renault, R8 prima ed R12 poi. Insomma, sapeva guidare. All’epoca quando volevamo fare le nostre “sparate” andavamo dietro l’aeroporto della Malpensa, dove c’era una strada deserta e nascosta che seguiva la rete di fine pista. Quando venne a ritirare l’A110 gli dissi di fare attenzione, che la macchina era scorbutica. Lui rispose che lo sapeva e che sarebbe andato a fare un giro alla Malpensa. Partì, ma non lo vedemmo più tornare: nella curva più impegnativa si era girato ed era finito fuori strada, strappando uno dei tubi che portava l’acqua dal radiatore anteriore al motore. Quando iniziammo a chiederci dove fosse finito, stava arrivando a piedi al paese più vicino per trovare un telefono e avvisarci…”.

La prima volta che il pubblico posò gli occhi su una piccola gran turismo dal muso di lucertola fu al Salone di Parigi del 1961 ove era esposta la versione stradale dell’Alpine A108 “Tour de France”; quasi uguale alle A110 di cui vogliamo occuparci in questa occasione, ne differiva stilisticamente nella coda che presentava ancora due pinnette con luci verticali molto somiglianti a quelle presenti sulla Renault Floride: la vettura che le prestava il motore. Motore di 845 cc che, elaborato da Amedeo Gordini, sviluppava 40 Cv che, già dimostrando la valenza sportiva della nuova nata, bastavano a proiettarla a 160 km/h; non sufficienti però per Jean Rédélé, il fondatore dell’Alpine, che ne fece una versione con motore portato a 998 cc e ben 70 Cv, per raggiungere addirittura i 180 km/h: una velocità che la metteva in diretta concorrenza con l’Alfa Romeo Giulietta Sprint Veloce di 1,3 litri, il che è tutto dire. Altra differenza fondamentale nei confronti delle Renault donatrici, il telaio a trave centrale in stile Lotus, che debutta proprio sulla A108 e che costituirà, con le sue rigidità e robustezza, un elemento fondamentale nella folgorante carriera agonistica della successiva Alpine Renault A110. Ma torniamo un attimo indietro per conoscere, almeno per sommi capi, chi è stato questa sorta di Colin Chapman francese.

Jean Rédélé è figlio del concessionario Renault di Dieppe, nel nord della Francia, e quindi respira benzina e olio motore fin dalla più tenera età: un cocktail in grado di condizionarne la crescita fino al punto da indurlo ad iscriversi, trentenne, alla Miglia Miglia del 1952. L’obiettivo è la classe 750 Sport: molto competitiva ma sufficientemente economica per non svenarsi ed incorrere in divieti paterni; riesce, tuttavia, partendo da una Renault 4 CV 1093 (la versione predisposta dalla Casa per i clienti sportivi di quella specie di Topolino a motore posteriore), a farsi costruire dalla Allemano di Torino una berlinetta in alluminio disegnata da Giovanni Michelotti. È storia che, con questa “Rédélé Speciale”, Jean vince la sua classe: un risultato che moltiplica il suo entusiasmo fino ad indurlo a fondare, nel 1955, una sua fabbrica di automobili sportive, l’Alpine: nome scelto dopo un’esperienza poco meno che mistica vissuta al volante della sua vetturetta durante la Coppa delle Alpi del 1954.

Primo modello a fregiarsi di tal nome, l’A106 del 1955: una berlinetta per i clienti simile alla “Rédélé Speciale” ma con carrozzeria in materiale plastico, come tutte le Alpine successive; si passa poi alla A 108 del 1957, alla già citata A108 “Tour de France” del 1961 ed infine alla A110 debuttante al Salone di Parigi 1962; caratterizzata finalmente da trattamento più moderno e più efficace della coda, che rimarrà pressoché invariato per tutta la vita del modello, riceve il motore della nuova Renault R8 da 956 cc elaborato fino a 75 Cv (SAE), sufficienti per spingerla a circa 190 km/h dichiarati (!). Nel 1964 la cilindrata cresce ai 1.108 cc della Renault 8 Major, con potenza portata a 60 Cv-DIN, circa la potenza del precedente; questo motore equipaggerà la prima versione della Renault R8 Gordini mentre una versione da 86 Cv sarà riservata in esclusiva ad una versione più aggressiva dell’A110. Nel 1965 si passa al motore 1,3 litri Gordini da 106 CV; e qui abbiamo i primi dati prestazionali rilevati strumentalmente: quasi 206 km/h e 0-100 in 8,1 secondi con un consumo che supera i dieci litri ogni cento km solo attorno ai 170 km/h di media; il segreto? Peso a vuoto di soli 685 kg e adeguata profilatura aerodinamica.

E si tenga anche presente che l’abitacolo, per quanto oggettivamente angusto, risulta ottimamente rifinito. Ulteriore passo è l’adozione del motore della Renault 16; dopo una quarantina di esemplari con l’originario motore 1,5, si passa, nel 1968, alla versione 1,6 della 16 TS ed al cambio a cinque marce; inizialmente i cavalli a disposizione sono soltanto 95, una decina in più di quelli disponibili sulla berlina di serie, ma ben presto comincia una scalata alla potenza che si conclude solamente una volta raggiunti i 138 Cv (SAE) della 1600 S che, nel 1971, fa segnare circa 209 km/h di velocità e uno 0-100 in 7,5 secondi.

Un risultato eclatante e, soprattutto, ottenuto senza stravolgere le tranquille caratteristiche di base del motore aste e bilancieri; unica “follia”, ben ponderata, l’adozione di due mostruosi carburatori orizzontali Weber da 45 mm adeguatamente assistiti da un sistema respiratorio molto più libero sia in immissione sia in scarico. Dopo avere incidentalmente sottolineato che è con la nascita della 1,6 che il musetto della A 110 diventa occhialuto (senza però assumere un aspetto da intellettuale ma piuttosto uno sguardo ipnotico tipico dei piccoli rettili citati all’inizio), segnaliamo che il telaio a trave centrale in acciaio a sezione tonda, integrato da due strutture in tubi rettangolari per il sostegno dei gruppi meccanici, si dimostra totalmente all’altezza di questi nuovi vertici prestazionali. In buona parte perché coadiuvato da un sistema sospensivo di primissima qualità: trapezi su ambedue gli assali con puntoni longitudinali e doppi ammortizzatori al retrotreno; un’impostazione corsaiola e non a caso; anche al di là del dèmone insito nella personalità del fondatore, che si può intravvedere dietro a tutte le sue realizzazioni, è gioco forza che una vettura del genere sia impiegata nelle competizioni.

Per raccontare analiticamente la storia della miriade di versioni, stradali e no, dell’A110, che si conclude nel 1977 con un’esemplare 1600 SX di colore verde (lucertola!?) occorrerebbe un libro (uno molto bello lo ha scritto Antonio Biasioli per i tipi della Elzeviro Editrice); noi, più umilmente, ci siamo ripromessi con questo servizio di ricordarne i punti salienti e speriamo di essere stati abbastanza coinvolgenti da far capire ai lettori i motivi che hanno spinto la Renault a riproporre questa vettura nel 2017, esattamente quarant’anni dopo la fine della produzione dell’originale.

Un modello talmente aderente ad esso da potersi affermare, secondo noi, che questa nuova vettura si possa includere nel rarefatto gruppo della “quasi repliche” proposte nel ventunesimo secolo da alcune Case costruttrici: Mini, Maggiolino e 500 sono le note esponenti di questo filone e, con l’A110, ad esse si è aggiunta una sportiva di primo livello; certamente, come insegnano la Volkswagen e la Fiat citate, per il successo di queste operazioni non è necessario rispettare anche l’impostazione meccanica originale: un motore posteriore può essere traslato in avanti senza pregiudizi di sorta.

E gli ingegneri della Renault, al momento di impostare questo progetto, erano sicuramente consapevoli che, per raggiungere i livelli di sicurezza attiva oggi ineludibili con il motore fuori bordo tipico di tutte le Alpine, occorrono almeno cinquant’anni di perfezionamenti all’Università di Stoccarda; saggiamente hanno così deciso di mettere il gruppo motopropulsore al centro ma, per farsi perdonare tale licenza, furono molto attenti a non tradire in alcun modo lo spirito dell’A110 originaria.

Corpo vettura compatto, ricerca maniacale della leggerezza, motore raffinato e di limitata cubatura, telaistica di prim’ordine: tutte caratteristiche che anche lo stesso Jean Rédélé avrebbe senz’altro perseguito ed il cui risultato, dall’alto del paradiso automobilistico dove risiede dal 2007, sicuramente approva, soprattutto quando è dipinto nel blu delle sue più amate “figliole”.

La linea dell’Alpine A110 rappresenta l’evoluzione finale di quella tratteggiata da Giovanni Michelotti per la prima 1063 di Jean Rédélé. Se consideriamo anche il motore Gordini, c’è di che essere fieri che anche su questa auto l’Italia non manchi…

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