27 April 2013

Università: così la ricerca spinge l'auto, tra batteri e nanotecnologie

L’industria dell’automobile pesca molto spesso nel modo universitario e anche l’Italia da questo punto di vista si difende bene. In Inghilterra sono stati scoperti batteri transegnici che producono il diesel come quello dei distributori, mentre a Milano...

NUOVO BIOCARBURANTE DIESEL

IL PAZIENTE INGLESE Risolvere l’annosa questione della ridotta disponibilità degli idrocarburi e del loro prezzo alla pompa soggetto alle oscillazioni del costo del petrolio greggio. Salvaguardando la natura e l’ambiente. Era questo l’obiettivo del gruppo di ricercatori inglesi, coordinati dal professor John Love, direttore del Dipartimento di Bioscienze dell’università di Exeter a Devon (www.exeter.ac.uk). Il lavoro, svolto grazie ai finanziamenti erogati dalla filiale britannica della compagnia petrolifera Shell, ha condotto alla scoperta del diesel naturale prodotto da batteri transgenici e identico a quello che si può acquistare nei distributori. Il risultato del lavoro del team britannico è stato pubblicato sulla rivista dell'Accademia di Scienze degli Stati Uniti (Pnas). Nella foto, scattata da Marian Littlejohn, si vede la piastra con il terreno di coltura utilizzato per lo studio: all’interno di quella scatoletta in plastica di forma circolare, che si utilizza nei laboratori scientifici, nascono e si sviluppano i batteri coltivati (cioè innestati) dai ricercatori. Per il momento si tratta di un esperimento ben riuscito, ma per la commercializzazione bisognerà aspettare ancora un po’. E non si sa quanto.

 

I BIOCARBURANTI Però, si tratta pur sempre di un passo avanti. Perchè i biocarburanti prodotti e disponibili sino ad oggi, come rivelò anche un’inchiesta pubblicata su Automobilismo di gennaio 2008, a parte i gas metano e Gpl, sono tutti derivati da fonte vegetale, come l’etanolo, che si ricava dalla canna da zucchero o dal mais, e il biodiesel, che si ottiene dalla colza o dal girasole; richiedono modifiche ai motori e, in alcuni casi, sono dannosi se immessi in commercio per l’utilizzo nei propulsori tradizionali, senza adeguate messe a punto. Inoltre, non sono nemmeno particolarmente convenienti dal punto di vista del rapporto tra dispendio energetico richiesto per produrli e rendimento energetico del prodotto. Al limite si va in “pareggio di bilancio” fra l’energia impiegata nella fase produttiva e quella a disposizione per l’alimentazione del motore. Per questo, risulta molto più pratico produrre gasolio e benzina a partire dal petrolio.

 

COME È ANDATA Ammesso che il processo funzioni davvero, perché i risultati di laboratorio, dati diffusi per la stampa scientifica a parte, sono al limite del top secret, per ottenere questo nuovo biodiesel, i ricercatori sono partiti dalla naturale capacità dei batteri Escherichia coli di trasformare gli zuccheri in grasso per costruire le loro membrane cellulari e li hanno, poi, modificati geneticamente (per questo si definiscono transegnici), affinché fossero in grado di trasformare i grassi in carburante. Il lavoro di genetica ha riguardato l’inserimento nel loro Dna di geni metabolismo prelevati da altri due tipi batteri: il Photorhabdus luminescens e il cianobatterio Nostoc punctiforme. Il team di John Love ha, quindi, dichiarato che, grazie a queste modifiche genetiche, ora la nuova specie di batteri, che non sono altro che cosiddetti OGM o organismi geneticamente modificati, possono produrre molecole “strutturalmente e chimicamente identiche ai dieci tipi di carburante diesel comunemente in commercio”.


IL COMMENTO Ha aggiunto Love: “Il nostro obiettivo è ottenere un biocarburante che possa essere utilizzato senza dover modificare i motori delle automobili. Sostituire il diesel convenzionale con un biocarburante sarebbe un enorme passo verso il raggiungimento dell'obiettivo di ridurre dell'80% le emissioni di gas a effetto serra entro il 2050. La domanda globale di energia è in aumento e un combustibile indipendente sia dalle oscillazioni del prezzo del petrolio sia dalle instabilità politiche è una prospettiva sempre più attraente”.

 

BATTERI MADE IN ITALY L’idea dell’inglese sembra fantascienza, ma il successo dell’impiego di batteri di sintesi è possibilissimo. Esiste già un’impresa italiana, che si chiama bio-on (www.bio-on.it) e produce un tipo di plastica completamente biodegradabile, senza l’uso di alcun prodotto pertrolchimico, a partire da una fermentazione batterica di zucchero. Il prodotto ottenuto si chiama Minerv-Pha (www.minerv.it). Questo nome deriva da PHAs, sigla dei polidrossialcanoati (Polyhydroxyalkanoato), biopolimeri che rappresentano una nuova generazione di poliesteri lineari, adatti a sostituire e migliorare i più comuni nell’uso industriale: PET, PE, PP, HDPE, LDPE. Minerv-pha è il primo biopolimero ad alte prestazioni, ottenuto da co-prodotti o scarti dello zucchero, in grado di dissolversi completamente in acqua di fiume o di mare, senza lasciare alcun residuo. In questo interessante documentario, si può vedere come nasce, come è prodotta e come si applica la plastica sintetizzata dai batteri.

 

 

ALTRI PRECEDENTI Erano già in commercio già altre forme di plastica naturale, di derivazione batterica e senza basi petrolchimiche, ma il processo per produrle è a tutt’oggi costoso e poco conveniente. Un esempio è il Butandiolo (BDO), fabbricato in gran parte dall’azienda americana di San Diego Genomatica (www.genomatica.com), con un valore di produzione annuale di oltre 4 miliardi di dollari, fra i diversi settori di applicazione, dall’industria automobilistica, a quella tessile, ai beni di consumo. Però quella italiana è meglio, perché è più ecologica.

I CHIMICI DELLA BICOCCA: LE SPUGNE E LE GOMME

I CHIMICI DELLA BICOCCA Al dipartimento di Scienze dei materiali dell’Università degli studi di Milano-Bicocca, sono già pronti per la fase di industrializzazione due studi: uno sullo stoccaggio del metano per auto, l’altro sulle pellicole per i vetri. Li coordina il professor Piero Sozzani, ordinario di Chimica industriale. Un’altra ricerca riguarda, invece, tecnologie più mature e si concentra sugli pneumatici, in stretto collegamento con il mondo della produzione: la collaborazione tra Bicocca e Pirelli dura dal 1998.

 

IL NANO CHE BEVE COME UNA SPUGNA Ad occuparsi del metano, alimentazione alternativa in forte crescita nel mercato automobilistico, è Mario Beretta, che ha ricevuto un assegno di ricerca con cui è riuscito a perfezionare il suo sistema di contenimento del gas per auto, basato su una nanospugna. È un materiale innovativo, dotato di un’altissima porosità. Si ricava partendo dalla soia ed è quindi biocompatibile. Ha le caratteristiche di una polvere e la struttura molecolare a nido d’ape, proprio come una comune spugna, solo che questa è nanometrica. Più piccola di quanto si possa immaginare il concetto di “piccolo”. Esattamente come tutto ciò che è nano e non è visibile al microscopio, perché, appunto, troppo piccolo. La proprietà della nanospugna scoperta da Beretta è questa: se si inserisce la polvere in una bombola o in un qualsiasi altro contenitore, è in grado di ridurre la pressione del gas, a parità di volume, fino a 30-80 atmosfere. Ad esempio, in un recipiente da un litro riempito di materiale assorbente è possibile stoccare fino a 40 litri di metano a zero gradi. Le nanospugne oltre a ridurre la pressione hanno anche la proprietà di rilasciare i gas al termine dello stoccaggio mantenendone inalterate le caratteristiche e possono essere rapidamente  usate per un nuovo ciclo di assorbimento. Per questi materiali è già in corso il deposito del brevetto. Altro grande vantaggio è il fatto che, essendo derivati dalla soia, sono biodegradabili e privi di metalli pesanti: si possono, quindi, smaltire tra i rifiuti organici al termine del loro ciclo di vita.

 

CHI PAGA I fondi per sostenere questo studio sono arrivati dal progetto H2-Ecomat, cofinanziato dall’Ateneo Bicocca e dalla Regione Lombardia, che hanno stanziato complessivamente 750.000 euro destinati a diverse ricerche. La Regione ha contribuito per 350.000 euro. Il resto dei soldi è farina – per restare in tema di polveri - del sacco della Bicocca. H2-Ecomat è un progetto più ampio, incentrato sullo studio delle proprietà di compressione dei materiali che appartengono alle categorie dei Materiali sintetici iperreticolati (MIR) e dei Materiali porosi di origine biologica (MPOB).

 

VEDO CHIARO Le pellicole elettrocromiche sono nate da un’idea dei professori Giorgio Pagani e Claudio Maria Mari. Il loro sviluppo è stato ulteriormente curato dai ricercatori Luca Beverina e Riccardo Ruffo. Tutto si basa su “batterie a film sottile”, che cambiano colore quando sono sottoposte a un impulso elettrico a bassissima tensione e assumono diverse sfumature. Sono composte da polimeri conduttori a sette strati e l’involucro esterno non è altro che il comune PET, ossia il polietilene tereftalato di cui sono composte le normalissime bottiglie di plastica per contenere acqua e bevande. Si possono applicare ai vetri dell’auto e anche agli specchietti e consentono di regolare l’intensità della luce che entra nell’abitacolo. La regolazione elettronica nell’intensità della luce, attraverso pellicole, non è del tutto un novità: molte auto sono dotate degli specchietti retrovisori elettrocromici (a base di ossido di tungsteno) e un’azienda italiana, Raleri, ha sviluppato, nel 2009, una visiera per caschi da moto che cambia colore a seconda dell’intensità della luce solare e basata sulla tecnologia a cristalli liquidi (LCD), di cui ha parlato Motociclismo. Però, Beverina e Ruffo tengono a sottolineare che la loro pellicola si adegua ai cambiamenti della luce molto più velocemente degli altri materiali fotosensibili e, inoltre, costa anche molto meno. Per la sua applicazione si parla di un prezzo compreso fra 50 e 100 euro a finestrino. Pare che Jaguar si stia interessando alla possibile installazione sulle sue vetture.

 

LA GOMMA GIUSTA A gestire i rapporti con Pirelli è Silvia Bracco (che parla assieme al professor Sozzani, in questo video realizzato dal canale C6TV). Anche lei titolare di un assegno di ricerca, si occupa di verificare l’aderenza dei composti di diversi polimeri, a base di silice in particolare, alla componente gommosa della mescola degli pneumatici. Lo fa con lo strumento della risonanza magnetica nucleare che le consente di ottenere le informazioni per migliorare il prodotto.

 

 

 

 

I FISICI DELLA UNIMI: LE NANOTECNOLOGIE PER CERVELLI ELETTRONICI

 

 

SENSORI ATTUALI I più innovativi sistemi elettronici e di sicurezza che equipaggiano le auto e le moto moderne sfruttano i sensori di inerzia (accelerometri e giroscopi) della categoria MEMS. Questa sigla indica Micro Electro Mechanical System, cioè sistemi elettromeccanici di dimensioni micro (10 elevato alla meno sei metri). Sono i “cervelli” degli airbag, dei sensori di crash, delle sospensioni elettroniche e dei controlli di trazione. Sfruttano l’attrito dei materiali su scala microscopia, generato da un piano mobile, che, spostandosi rispetto ad uno vincolato (di solito sono innestati nel silicio e prodotti in gran parte da ST Microelectronics), produce, appunto per attrito delle parti, un segnale elettrico di intensità variabile a seconda del movimento. Serve da impulso per le diverse centraline elettroniche che controllano i sistemi di sicurezza o le parti meccaniche (sospensioni di tipo elettronico) delle auto e delle moto. Ormai, con l’industrializzazione dei MEMS arrivata ai massimi livelli di produzione, non si può fare di meglio: questi dispositivi sono ciò che si definisce una tecnologia matura. Significa che allo stato dell’arte non è possibile renderli più efficienti.

 

SENSORI FUTURI E PIÙ SENSIBILI Ma non è detta l’ultima parola. Una soluzione per ottenere sistemi di sicurezza più efficaci esiste. È quella di ridurre le dimensioni dei cervelli elettronici, passando da MEMS a NEMS, che significa Nano Electro Mechanical System, cioè sistemi elettromeccanici di dimensioni nano (10 elevato alla meno nove metri). Però, su questa scala, che in poche parole è a livello atomico, le misure degli attriti, sino ad oggi, erano ancora ignote. Li avevano scoperti in Germania, con uno studio iniziale condotto con una sorta di microscopio (definizione impropria dato che stiamo parlando di nano e non di micro), i ricercatori Thomas Bohlein, Jules Mikhael, Clemens Bechinger, che avevano pubblicato un testo sull’osservazione di “solitoni” e “antisolitoni” nei materiali colloidi. Questi materiali furono scelti per risolvere un problema essenziale: è impossibile osservare al microscopio come si comportano due superfici rigide (per esempio dei semimetalli come il silicio utilizzati nei MEMS), quando “sfregano” una sull’altra, ma il colloide può sostituire la superficie superiore, cioè quella che si muove sull’altra vincolata (per produrre l’impulso elettrico), e le sue proprietà di attrito si riescono a valutare al microscopio. Oltre a ciò, il colloide offre il vantaggio di poter assumere le proprietà fisiche di qualsiasi altro materiale, attraverso una sollecitazione che si fa con dei laser. Quindi consente di fare degli studi di laboratorio utilizzando i collodi che si vedono al microscopio ma in realtà riproducono gli stessi attriti del materiale che si vorrebbe studiare e impiegare nella produzione industriale (per esempio possono assumere le proprietà del titanio). I tre fisici avevano capito che nello sfregamento fra le superfici dei due materiali, su entrambe si generano delle zone di addensamento degli atomi, chiamate solitoni (in rosa nella foto), ed altre di rarefazione, chiamate antisolitoni (in bianco), e che un bilanciamento in grado di aumentare il numero di solitoni che si respingono fra di loro e quindi tendono a scivolare, fa diminuire gli attriti e può rendere i NEMS più efficaci.

 

LA CHIAVE DEL PROBLEMA Tra il micro e il macro, però, c’è di mezzo la matematica e non solo per l’unità di misura. Ai ricercatori del primo studio mancava la formula per misurare il bilanciamento, che adesso c’è. È nata al numero 16 di via Celoria, dove ha sede la facoltà di Fisica dell’Università degli Studi di Milano (Unimi). Qui, abbiamo incontrato il professor Nicola Manini, che, in collaborazione con i colleghi Erio Tosatti e Andrea Vanossi, ha scoperto il modello matematico che consentirà di misurare gli attriti per ottenere dei sistemi NEMS efficienti ed efficaci nella funzione di “cervelli” per la sicurezza delle moto. Adesso che c’è la base fisica, l’ingegneria dovrà fare il suo corso. Il professor Manini ha, infatti, spiegato ad Automobilismo che “il compito di un fisico è quello di fare delle valutazioni sulla materia, ma sono poi gli ingegneri a trasformare le scoperte della fisica in prodotti industriali”.

 

ATTRITI La conoscenza degli attriti a livello nanometrico potrà contribuire a migliorare lo sviluppo di altri prodotti, come per esempio gli oli lubrificanti, che sono materiali viscosi e la cui efficacia è fortemente legata agli attriti, oltre ad alcune componenti degli pneumatici. Il rotolamento è, infatti, legato a fenomeni macroscopici e microscopici, però, con il fatto che le ricerche da cui nascono le mescole diventano sempre più complesse, è probabile che vi trovino utilità le conoscenze degli attriti nanometrici.

 

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