08 April 2008

Ferrari 312 B3

Ferrari 312 B3

Introduzione


Chiamare una Ferrari di Formula Uno “spazzaneve”? Mah!? Eppure questo è il nomignolo affibbiato, a causa della particolare forma dell’alettone anteriore, alla monoposto progettata dall’ing. Mauro Forghieri nel 1972. Per capirne la genesi dobbiamo andare proprio al 1972, in cui la Ferrari 312 B2 si impone nel solo Gran Premio di Germania: una vittoria rimasta isolata, ma significativa perché conseguita sul circuito più difficile, il Nürburgring. Fra l’altro con una doppietta di Jacky Ickx e Clay Regazzoni a coronamento di un week-end che vede il pilota belga scattare dalla pole e segnare il giro più veloce in gara. Altri brillanti piazzamenti erano stati colti nel corso dell’anno (tra i quali tre secondi posti), ma nel complesso la stagione, per
una somma d’inconvenienti a volte banali o fortuiti, si era conclusa sottotono rispetto alle attese. La monoposto del 1972 derivava dalla 312 B2 del1971, una macchina dalla sospensione posteriore innovativa, con ammortizzatori orizzontali, pensata per assicurare un migliore sfruttamento dell’impronta a terra dei pneumatici, che nel frattempo avevano subìto un passaggio tecnico epocale: tra il 1970 e il 1971 erano diventati lisci.


Chiamare una Ferrari di Formula Uno “spazzaneve”? Mah!? Eppure questo è il nomignolo affibbiato, a causa della particolare forma dell’alettone anteriore, alla monoposto progettata dall’ing. Mauro Forghieri nel 1972. Per capirne la genesi dobbiamo andare proprio al 1972, in cui la Ferrari 312 B2 si impone nel solo Gran Premio di Germania: una vittoria rimasta isolata, ma significativa perché conseguita sul circuito più difficile, il Nürburgring. Fra l’altro con una doppietta di Jacky Ickx e Clay Regazzoni a coronamento di un week-end che vede il pilota belga scattare dalla pole e segnare il giro più veloce in gara. Altri brillanti piazzamenti erano stati colti nel corso dell’anno (tra i quali tre secondi posti), ma nel complesso la stagione, per
una somma d’inconvenienti a volte banali o fortuiti, si era conclusa sottotono rispetto alle attese. La monoposto del 1972 derivava dalla 312 B2 del1971, una macchina dalla sospensione posteriore innovativa, con ammortizzatori orizzontali, pensata per assicurare un migliore sfruttamento dell’impronta a terra dei pneumatici, che nel frattempo avevano subìto un passaggio tecnico epocale: tra il 1970 e il 1971 erano diventati lisci.

Assetto in crisi


La combinazione della nuova sospensione con le gomme slick non si rivelò delle migliori, tant’è che la 312 B2 del 1971 (pur avendo vinto in Olanda con Ickx) soffriva di vibrazioni che mettevano in crisi l’assetto, vanificando il vantaggio che la Ferrari aveva nella maggiore potenza del propulsore. Nel 1972 i problemi legati alle vibrazioni furono in gran parte risolti:
la 312 B2 di quell’anno presentava una sospensione posteriore modificata e cerchi posteriori da 13 pollici di diametro anziché da 15. Ma ormai è tempo di pensare al 1973 e addirittura al
1974: la B2 è al capolinea e la natura della F.1, i cui tempi velocissimi non consentono pause nell’evoluzione tecnica, è ancor più complicata dalla situazione politica italiana, dove le difficoltà nelle relazioni sindacali mettono in difficoltà anche una realtà come la Ferrari. Bisogna pensare ad una nuova vettura con la quale puntare a quell’alloro piloti che sfugge dal 1964 e l’ing. Forghieri ha in mente alcune idee per le monoposto future. Sono idee che vanno studiate, e il modo migliore è di realizzare una monoposto-prototipo, destinata ai collaudi più che alle gare. La B3, più ancora che un’evoluzione della B2, dovrà essere un’auto di transizione verso un progetto completamente nuovo.


La combinazione della nuova sospensione con le gomme slick non si rivelò delle migliori, tant’è che la 312 B2 del 1971 (pur avendo vinto in Olanda con Ickx) soffriva di vibrazioni che mettevano in crisi l’assetto, vanificando il vantaggio che la Ferrari aveva nella maggiore potenza del propulsore. Nel 1972 i problemi legati alle vibrazioni furono in gran parte risolti:
la 312 B2 di quell’anno presentava una sospensione posteriore modificata e cerchi posteriori da 13 pollici di diametro anziché da 15. Ma ormai è tempo di pensare al 1973 e addirittura al
1974: la B2 è al capolinea e la natura della F.1, i cui tempi velocissimi non consentono pause nell’evoluzione tecnica, è ancor più complicata dalla situazione politica italiana, dove le difficoltà nelle relazioni sindacali mettono in difficoltà anche una realtà come la Ferrari. Bisogna pensare ad una nuova vettura con la quale puntare a quell’alloro piloti che sfugge dal 1964 e l’ing. Forghieri ha in mente alcune idee per le monoposto future. Sono idee che vanno studiate, e il modo migliore è di realizzare una monoposto-prototipo, destinata ai collaudi più che alle gare. La B3, più ancora che un’evoluzione della B2, dovrà essere un’auto di transizione verso un progetto completamente nuovo.

Migliorare il telaio....


A questo punto la storia s’intreccia con vicende che poco hanno a che fare con le piste: Enzo Ferrari si ammala ed è costretto a disertare il proprio ufficio. Si prevede una lunga assenza, con il timore, vista l’età, che non ce la faccia a superare la crisi. A farne le veci dalla Fiat a Torino inviano l’ing. Colombo. La stampa dell’epoca afferma che la Ferrari vince quando può contare sulla superiorità del motore: quando perde è colpa del telaio, non all’altezza di quelli costruiti dai maestri inglesi. E’ un luogo comune, forse dettato dalla reazione emotiva degli appassionati che sopravvalutano l’apporto del motore sulla competitività complessiva di una monoposto di Formula Uno. In questo modo, tuttavia, deve pensarla anche Colombo, che convoca Forghieri per affidargli l’incarico di progettare una monoscocca da far costruire in Inghilterra. Forghieri non condivide questo modo di pensare e ha dalla sua ottime ragioni. La soluzione che ha in mente per il futuro è la 312 T, quella con cui Lauda vincerà il Mondiale nel 1975 e che, evoluta nelle versioni T2, T3 e T4, conquisterà altri due titoli iridati piloti.
La divergenza di vedute porta ad una rottura: la progettazione della 312 B3 per il 1973 è dirottata all’ufficio tecnico diretto da Rocchi e l’incarico di costruirla affidato allo specialista britannico John Thompson, presso la ditta TC Prototypes Ltd di Weedon, nei pres-si di Northampton. La stampa enfatizza la cosa, con il risultato di creare un’attesa nei fan del Cavallino Rampante per vedere di chissà quali meraviglie sarà capace la nuova monoposto di Maranello finalmente costruita con “metodi inglesi”. Il destino della 312 B3 Spazzaneve, auto da corsa che non corse mai, si compie sullo sfondo di queste vicende.


A questo punto la storia s’intreccia con vicende che poco hanno a che fare con le piste: Enzo Ferrari si ammala ed è costretto a disertare il proprio ufficio. Si prevede una lunga assenza, con il timore, vista l’età, che non ce la faccia a superare la crisi. A farne le veci dalla Fiat a Torino inviano l’ing. Colombo. La stampa dell’epoca afferma che la Ferrari vince quando può contare sulla superiorità del motore: quando perde è colpa del telaio, non all’altezza di quelli costruiti dai maestri inglesi. E’ un luogo comune, forse dettato dalla reazione emotiva degli appassionati che sopravvalutano l’apporto del motore sulla competitività complessiva di una monoposto di Formula Uno. In questo modo, tuttavia, deve pensarla anche Colombo, che convoca Forghieri per affidargli l’incarico di progettare una monoscocca da far costruire in Inghilterra. Forghieri non condivide questo modo di pensare e ha dalla sua ottime ragioni. La soluzione che ha in mente per il futuro è la 312 T, quella con cui Lauda vincerà il Mondiale nel 1975 e che, evoluta nelle versioni T2, T3 e T4, conquisterà altri due titoli iridati piloti.
La divergenza di vedute porta ad una rottura: la progettazione della 312 B3 per il 1973 è dirottata all’ufficio tecnico diretto da Rocchi e l’incarico di costruirla affidato allo specialista britannico John Thompson, presso la ditta TC Prototypes Ltd di Weedon, nei pres-si di Northampton. La stampa enfatizza la cosa, con il risultato di creare un’attesa nei fan del Cavallino Rampante per vedere di chissà quali meraviglie sarà capace la nuova monoposto di Maranello finalmente costruita con “metodi inglesi”. Il destino della 312 B3 Spazzaneve, auto da corsa che non corse mai, si compie sullo sfondo di queste vicende.

Intervista Mauro Forghieri


Con il consenso di Enzo Ferrari, Mauro Forghieri progetta e fa costruire la Spazzaneve per sperimentare le soluzioni che aveva ipotizzato per il futuro. Questo fu il motivo che portò alla realizzazione di questa Ferrari che non corse nemmeno un gran premio, la cui storia ci è raccontata dallo stesso progettista. L’ing. Mauro Forghieri è stato per trent’anni direttore tecnico
di Maranello, artefice delle macchine da corsa che dagli anni ’60 agli ‘80 hanno dato alla Ferrari una cospicua mole di vittorie. Tra quelle di maggior rilievo figurano quattro affermazioni
nel Campionato Mondiale Piloti e sette titoli Costruttori in Formula Uno, cinque Campionati del Mondo nella categoria Sport-Prototipo, due titoli Europei della Montagna, una Tasman Cup e una Temporada in Argentina.


 Ingegner Forghieri, si diceva in quegli anni che la Ferrari, a differenza dei team inglesi, non avesse una vera e propria monoscocca, attribuendo così i momenti di minore competitività ad una presunta inferiorità del telaio. Come mai?

“La Ferrari aveva una monoscocca. E non era affatto inferiore come telaio. Il fatto è che sul termine ‘monoscocca’ è sempre stata fatta confusione. La prima vera monoscocca in Formula Uno fu la Lotus 25 del 1962, cui fecero seguito le Ferrari 156 del 1961 e 158 del 1964. Gli altri ancora non avevano monoscocche. Era un tipo di costruzione che derivava dalla tecnologia aeronautica, quando si passò da un’intelaiatura in tubi sottili, sopra i quali si chiodavano le lamiere, all’adozione di metodi più sofisticati, utilizzando centi- ne d’alluminio sopra le quali erano ugualmente chiodate le lamiere. La 156 e la 158 erano quindi delle vere monoscocche, costruite come la Lotus 25: soltanto, per noi era estremamente difficile adottare
la tecnica degli Inglesi, che prevedeva la chiodatura mediante rivetti a scomparsa, perché non avevamo mano d’opera con esperienza specifica. Perciò trovammo una tecnica alternativa, che però dava risultati equivalenti. La differenza con la costruzione degli Inglesi era che noi adottavamo un modo diverso di unire le lamiere, un metodo che avevamo inventato per poter costruire il telaio in casa, perché negli anni Sessanta non c’erano molti soldi. Il budget era limitato, auto stradali non se ne vendevano molte ed Enzo Ferrari doveva pensare prima di tutto a tenere in piedi la ditta. Dovevamo realizzare il nostro lavoro nel migliore dei modi con le risorse disponibili. Ma la vettura era a tutti gli effetti una monoscocca. Nel 1965 disegnammo un telaio che divenne la vettura di tre litri del ‘66, su cui utilizzammo quella tecnica aeronautica antecedente quella delle cosiddette monoscocche pure, anche perché mi resi conto che in questo modo impiegavamo poco tempo. I risultati in termini di rigidezza erano equivalenti, i ragazzi la realizzavano benissimo e, cosa non trascurabile, non dovevamo costruire attrezzature specifiche. Con l’arrivo dei serbatoi flessibili usavamo dei piccoli tubi a sezione quadra: univamo le lamiere con delle macchine rivettatrici automatiche e non c’era più la necessità di ribattere i chiodi perchè restavano all’interno. Questa tecnica non dava fastidio al serbatoio che poteva adagiarsi attorno al tubo quadro. E la macchina era ugualmente una monoscocca. Quanto alla competitività del telaio, posso affermare  che al Nürburgring non si vince se non si ha un ‘signor telaio’ e una macchina con un’ottima tenuta di strada. E noi su quel circuito, nel ’72, avevamo dominato.”


Con il consenso di Enzo Ferrari, Mauro Forghieri progetta e fa costruire la Spazzaneve per sperimentare le soluzioni che aveva ipotizzato per il futuro. Questo fu il motivo che portò alla realizzazione di questa Ferrari che non corse nemmeno un gran premio, la cui storia ci è raccontata dallo stesso progettista. L’ing. Mauro Forghieri è stato per trent’anni direttore tecnico
di Maranello, artefice delle macchine da corsa che dagli anni ’60 agli ‘80 hanno dato alla Ferrari una cospicua mole di vittorie. Tra quelle di maggior rilievo figurano quattro affermazioni
nel Campionato Mondiale Piloti e sette titoli Costruttori in Formula Uno, cinque Campionati del Mondo nella categoria Sport-Prototipo, due titoli Europei della Montagna, una Tasman Cup e una Temporada in Argentina.


 Ingegner Forghieri, si diceva in quegli anni che la Ferrari, a differenza dei team inglesi, non avesse una vera e propria monoscocca, attribuendo così i momenti di minore competitività ad una presunta inferiorità del telaio. Come mai?

“La Ferrari aveva una monoscocca. E non era affatto inferiore come telaio. Il fatto è che sul termine ‘monoscocca’ è sempre stata fatta confusione. La prima vera monoscocca in Formula Uno fu la Lotus 25 del 1962, cui fecero seguito le Ferrari 156 del 1961 e 158 del 1964. Gli altri ancora non avevano monoscocche. Era un tipo di costruzione che derivava dalla tecnologia aeronautica, quando si passò da un’intelaiatura in tubi sottili, sopra i quali si chiodavano le lamiere, all’adozione di metodi più sofisticati, utilizzando centi- ne d’alluminio sopra le quali erano ugualmente chiodate le lamiere. La 156 e la 158 erano quindi delle vere monoscocche, costruite come la Lotus 25: soltanto, per noi era estremamente difficile adottare
la tecnica degli Inglesi, che prevedeva la chiodatura mediante rivetti a scomparsa, perché non avevamo mano d’opera con esperienza specifica. Perciò trovammo una tecnica alternativa, che però dava risultati equivalenti. La differenza con la costruzione degli Inglesi era che noi adottavamo un modo diverso di unire le lamiere, un metodo che avevamo inventato per poter costruire il telaio in casa, perché negli anni Sessanta non c’erano molti soldi. Il budget era limitato, auto stradali non se ne vendevano molte ed Enzo Ferrari doveva pensare prima di tutto a tenere in piedi la ditta. Dovevamo realizzare il nostro lavoro nel migliore dei modi con le risorse disponibili. Ma la vettura era a tutti gli effetti una monoscocca. Nel 1965 disegnammo un telaio che divenne la vettura di tre litri del ‘66, su cui utilizzammo quella tecnica aeronautica antecedente quella delle cosiddette monoscocche pure, anche perché mi resi conto che in questo modo impiegavamo poco tempo. I risultati in termini di rigidezza erano equivalenti, i ragazzi la realizzavano benissimo e, cosa non trascurabile, non dovevamo costruire attrezzature specifiche. Con l’arrivo dei serbatoi flessibili usavamo dei piccoli tubi a sezione quadra: univamo le lamiere con delle macchine rivettatrici automatiche e non c’era più la necessità di ribattere i chiodi perchè restavano all’interno. Questa tecnica non dava fastidio al serbatoio che poteva adagiarsi attorno al tubo quadro. E la macchina era ugualmente una monoscocca. Quanto alla competitività del telaio, posso affermare  che al Nürburgring non si vince se non si ha un ‘signor telaio’ e una macchina con un’ottima tenuta di strada. E noi su quel circuito, nel ’72, avevamo dominato.”

Carrozzeria più larga....


C’è però una differenza tra la Spazzaneve e le  precedenti monoposto della serie 312 B: alettone anteriore a parte, la carrozzeria è assai più larga. Perché?

La Spazzaneve fu costruita sulla base della B2. Né poteva essere diversamente perché era una macchina sperimentale. Riuscii a costruirla spendendo pochissimi soldi, ma non era la monoposto futura, quella con cui disputare la stagione successiva. Quella vera, quella che avevo in animo di mettere in pista era la 312 T, ma di certo non lo andavo a dire!
La Spazzaneve mi serviva per chiarirmi le idee, per capire, in definitiva, la reale portata delle nuove soluzioni. Quella forma di carrozzeria derivava dalle esperienze compiute in galleria del vento a Stoccarda, dove avevamo visto che i prototipi, con la loro  notevole impronta a terra, avevano una deportanza maggiore rispetto alle macchine di Formula. La Spazzaneve era stata pensata tenendo presente questi dati sperimentali, perché, a parità di depressione per unità di area, un’impronta a terra più elevata significa beneficiare di un maggiore carico aerodinamico. Le successive prove in galleria del vento avevano dimostrato che con la Spazzaneve avevamo una deportanza superiore a quella della Lotus 72 (che era all’epoca assieme alle Tyrrell 005-006 la vettura da battere) e delle nostre stesse monoposto precedenti. La particolare forma dell’ala anteriore, oltre a creare deportanza, serviva ad aumentare la superficie a terra della vettura e a guidare i flussi d’aria lungo la carrozzeria e verso i radiatori, che si trovavano nelle pance e non più davanti. Questo spostamento delle masse radianti verso il centro dava il vantaggio di una migliore maneggevolezza per effetto del ridotto momento d’inerzia.”


All’epoca della Spazzaneve a che punto era la ricerca in tema di aerodinamica sulle monoposto di F.1?

“Non c’erano ancora le minigonne o più in generale il concetto di estrarre l’aria da sotto la vettura. Si cercava di avere il fondo della macchina più in basso possibile, con lo scopo di ricavare un po’ di effetto-suolo. Il resto del carico deportante era ottenuto con gli alettoni. Bisognava lavorare su geometrie ed incidenze per ottenere i carichi desiderati, cercando di non  dumentare più di tanto la resistenza dell’aria in modo da non penalizzare la velocità massima. Molti ritengono che la prima vettura da corsa a montare un alettone sia stata la Chaparrall nel 1967, ma non è vero: la prima fu una vettura del 1923, ad opera del prof. Kamm.  Nel 1959 Michel May, un tecnico validissimo che fu anche nostro consulente, lo montò su una Porsche, ma i commissari di gara della Targa Florio glielo fecero togliere. Già negli anni Trenta, comunque, le vetture da record avevano appendici aerodinamiche. Noi fummo la prima scuderia di F.1 a montare un alettone, al GP del Belgio del 1968. Era regolabile ed agiva sul telaio: l’ala aumentava la propria incidenza in curva e in frenata e la diminuiva in rettilineo. Fummo subito imitati. Mi ricordo che Jack Brabham (che era un grande campione e un uomo di notevole caratura) venne a vedere il nostro alettone applicato in prova sulla vettura di Chris Amon. Il giorno dopo ne comparve uno sulla sua Brabham-Repco. Era stato fatto con del legno: non diede risultati apprezzabili, e non li poteva dare visto che era stato improvvisato mentre il nostro era frutto di studi e ricerche. Ma è un episodio che fa capire la portata della novità. Poi gli Inglesi li montarono sulle sospensioni dove erano un po’ più efficaci, ma anche assai pericolosi a causa delle sollecitazioni che innescavano rotture catastrofiche, come avvenne al gran premio di Spagna del 1969 alle Lotus di Hill e Rindt. La Federazione a quel punto prima li abolì del tutto (già al successivo GP di Monaco) e poi li reintrodusse, ma con precise regole che ne limitavano la larghezza, la posizione e l’altezza da terra, penalizzando
con ciò anche il nostro sistema che era invece razionale e perfettamente sicuro.”


C’è però una differenza tra la Spazzaneve e le  precedenti monoposto della serie 312 B: alettone anteriore a parte, la carrozzeria è assai più larga. Perché?

La Spazzaneve fu costruita sulla base della B2. Né poteva essere diversamente perché era una macchina sperimentale. Riuscii a costruirla spendendo pochissimi soldi, ma non era la monoposto futura, quella con cui disputare la stagione successiva. Quella vera, quella che avevo in animo di mettere in pista era la 312 T, ma di certo non lo andavo a dire!
La Spazzaneve mi serviva per chiarirmi le idee, per capire, in definitiva, la reale portata delle nuove soluzioni. Quella forma di carrozzeria derivava dalle esperienze compiute in galleria del vento a Stoccarda, dove avevamo visto che i prototipi, con la loro  notevole impronta a terra, avevano una deportanza maggiore rispetto alle macchine di Formula. La Spazzaneve era stata pensata tenendo presente questi dati sperimentali, perché, a parità di depressione per unità di area, un’impronta a terra più elevata significa beneficiare di un maggiore carico aerodinamico. Le successive prove in galleria del vento avevano dimostrato che con la Spazzaneve avevamo una deportanza superiore a quella della Lotus 72 (che era all’epoca assieme alle Tyrrell 005-006 la vettura da battere) e delle nostre stesse monoposto precedenti. La particolare forma dell’ala anteriore, oltre a creare deportanza, serviva ad aumentare la superficie a terra della vettura e a guidare i flussi d’aria lungo la carrozzeria e verso i radiatori, che si trovavano nelle pance e non più davanti. Questo spostamento delle masse radianti verso il centro dava il vantaggio di una migliore maneggevolezza per effetto del ridotto momento d’inerzia.”


All’epoca della Spazzaneve a che punto era la ricerca in tema di aerodinamica sulle monoposto di F.1?

“Non c’erano ancora le minigonne o più in generale il concetto di estrarre l’aria da sotto la vettura. Si cercava di avere il fondo della macchina più in basso possibile, con lo scopo di ricavare un po’ di effetto-suolo. Il resto del carico deportante era ottenuto con gli alettoni. Bisognava lavorare su geometrie ed incidenze per ottenere i carichi desiderati, cercando di non  dumentare più di tanto la resistenza dell’aria in modo da non penalizzare la velocità massima. Molti ritengono che la prima vettura da corsa a montare un alettone sia stata la Chaparrall nel 1967, ma non è vero: la prima fu una vettura del 1923, ad opera del prof. Kamm.  Nel 1959 Michel May, un tecnico validissimo che fu anche nostro consulente, lo montò su una Porsche, ma i commissari di gara della Targa Florio glielo fecero togliere. Già negli anni Trenta, comunque, le vetture da record avevano appendici aerodinamiche. Noi fummo la prima scuderia di F.1 a montare un alettone, al GP del Belgio del 1968. Era regolabile ed agiva sul telaio: l’ala aumentava la propria incidenza in curva e in frenata e la diminuiva in rettilineo. Fummo subito imitati. Mi ricordo che Jack Brabham (che era un grande campione e un uomo di notevole caratura) venne a vedere il nostro alettone applicato in prova sulla vettura di Chris Amon. Il giorno dopo ne comparve uno sulla sua Brabham-Repco. Era stato fatto con del legno: non diede risultati apprezzabili, e non li poteva dare visto che era stato improvvisato mentre il nostro era frutto di studi e ricerche. Ma è un episodio che fa capire la portata della novità. Poi gli Inglesi li montarono sulle sospensioni dove erano un po’ più efficaci, ma anche assai pericolosi a causa delle sollecitazioni che innescavano rotture catastrofiche, come avvenne al gran premio di Spagna del 1969 alle Lotus di Hill e Rindt. La Federazione a quel punto prima li abolì del tutto (già al successivo GP di Monaco) e poi li reintrodusse, ma con precise regole che ne limitavano la larghezza, la posizione e l’altezza da terra, penalizzando
con ciò anche il nostro sistema che era invece razionale e perfettamente sicuro.”

Perchè due monoposto....


La sua Spazzaneve fu portata avanti assieme all’altra 312 B3, quella costruita voluta dai vertici Fiat e costruita in Inghilterra. Quale fu la ragione che spinse la Ferrari a costruire due
monoposto?

“Non c’erano due monoposto: quella per la stagione 1973 era una, e non era la mia Spazzaneve. Quando arrivò l’ing. Colombo, in veste non di progettista ma di dirigente, mi fu proposto di realizzare una nuova monoscocca come quelle inglesi. Io risposi che la cosa importante era avere una macchina leggera e con un’elevata rigidezza torsionale. La nostra era un po’ più leggera delle altre ed era altrettanto rigida, e questi erano dati misurabili, non opinioni. Perché cambiarla? Perché lo diceva Autosprint o qualche altro giornale?Non ci fu nulla da fare. Diedero l’incarico di costruire questa monoscocca a Thompson, in Inghilterra, che la fece con il radiatore dell’acqua nel muso. Quando a Maranello si resero conto che la macchina non andava, che quel telaio non dava alcun vantaggio rispetto ai nostri, tolsero perfino dei rivetti, perché erano convinti che la scocca fosse troppo rigida. Io diedi le dimissioni e a novembre ‘72 cominciai a lavorare in proprio. In quel periodo, nel pieno della prima crisi energetica, lavorai per la Volvo ed anche per Enzo Ferrari, che mi aveva commissionato alcuni incarichi. Nel frattempo proseguivo con il progetto della 312 T con cambio trasversale fino a quando il Commendatore, uscito ad agosto ‘73 dalla clinica e ormai completamente ristabilito, rientrò a pieno titolo in fabbrica. Mi chiese se me la sentivo di mettere a posto quella macchina lì (la B3 ‘inglese’, n.d.r.) che non era mai stata minimamente competitiva, malgrado le tante modifiche. A tal punto che la Ferrari non partecipò ai GP d’Olanda e di Germania del 1973, per una ‘pausa di riflessione tecnica’. Risposi che non avevo intenzione di metterla a posto, ma di cambiarla, perché così com’era non poteva andare bene. Aveva un momento d’inerzia troppo elevato, con quel radiatore montato davanti quando tutti gli altri li avevano nelle fiancate attorno al baricentro. La scarsa competitività della B3 di Thompson causò anche dissapori nella squadra: Ickx corse il GP di Germania con una McLaren-Ford arrivando terzo, dopo aver visto quello d’Olanda da spettatore. Feci allora la B3S, che misi in pista in venticinque giorni. Con questa macchina Arturo Merzario batté il record a Fiorano. La B3S, ulteriormente affinata, divenne la 312 B3/B4 con la quale nel 1974 Clay Regazzoni sfiorò il titolo iridato.”


Il motore della Spazzaneve era il 12 cilindri della B2 o presentava degli sviluppi?

“Il motore era il ‘boxer’ della B2. Lo scriva tra virgolette, perché era un V di 180°, come ho più volte detto. La differenza sta nel cinematismo formato dall’albero motore e dalle bielle. E questo comporta una sostanziale differenza nel movimento dei pistoni. Ciò premesso, lo sviluppo del motore, che alla fine del ’72 erogava all’incirca 480-485 CV, era limitato dall’accensione. Quel V12 avrebbe potuto superare i 14.000 giri, ma non non c’erano accensioni in grado di seguirlo. Nel 1971, al Questor Gran Prix a Ontario (non valido per il Mondiale) vinto da Mario Andretti con la 312 B, eravamo a 13.500 giri, ma quasi inutilmente, visto che la potenza era erogata a 12.500. Un certo miglioramento si ottenne con il Dinoplex della Marelli, ma a quel punto subentrò il problema delle molle di richiamo delle valvole: si dovevano irrigidire le molle e ne soffrivano gli assi a camme. Si verificava dell’usura e finivamo il gran premio con una perdita di potenza soprattutto agli alti regimi. Alla fine ottimizzammo la coppia, accontentandoci di girare a 12.500-12.800 giri. I piloti però sapevano che il moto-re ne poteva sopportare di più e se ne servivano quando la situazione lo richiedeva: per esempio per un sorpasso. “

La Spazzaneve, che è sopravvissuta e oggi partecipa alle competizioni  riservate alle F1 storiche, resta testimonianza di un capitolo breve ma molto intenso nella lunga vita sportiva e tecnica di Maranello. Un capitolo fondamentale: da questa monoposto nacquero quelle che riportarono il titolo alla Ferrari dopo un lungo digiuno.
La sua Spazzaneve fu portata avanti assieme all’altra 312 B3, quella costruita voluta dai vertici Fiat e costruita in Inghilterra. Quale fu la ragione che spinse la Ferrari a costruire due
monoposto?

“Non c’erano due monoposto: quella per la stagione 1973 era una, e non era la mia Spazzaneve. Quando arrivò l’ing. Colombo, in veste non di progettista ma di dirigente, mi fu proposto di realizzare una nuova monoscocca come quelle inglesi. Io risposi che la cosa importante era avere una macchina leggera e con un’elevata rigidezza torsionale. La nostra era un po’ più leggera delle altre ed era altrettanto rigida, e questi erano dati misurabili, non opinioni. Perché cambiarla? Perché lo diceva Autosprint o qualche altro giornale?Non ci fu nulla da fare. Diedero l’incarico di costruire questa monoscocca a Thompson, in Inghilterra, che la fece con il radiatore dell’acqua nel muso. Quando a Maranello si resero conto che la macchina non andava, che quel telaio non dava alcun vantaggio rispetto ai nostri, tolsero perfino dei rivetti, perché erano convinti che la scocca fosse troppo rigida. Io diedi le dimissioni e a novembre ‘72 cominciai a lavorare in proprio. In quel periodo, nel pieno della prima crisi energetica, lavorai per la Volvo ed anche per Enzo Ferrari, che mi aveva commissionato alcuni incarichi. Nel frattempo proseguivo con il progetto della 312 T con cambio trasversale fino a quando il Commendatore, uscito ad agosto ‘73 dalla clinica e ormai completamente ristabilito, rientrò a pieno titolo in fabbrica. Mi chiese se me la sentivo di mettere a posto quella macchina lì (la B3 ‘inglese’, n.d.r.) che non era mai stata minimamente competitiva, malgrado le tante modifiche. A tal punto che la Ferrari non partecipò ai GP d’Olanda e di Germania del 1973, per una ‘pausa di riflessione tecnica’. Risposi che non avevo intenzione di metterla a posto, ma di cambiarla, perché così com’era non poteva andare bene. Aveva un momento d’inerzia troppo elevato, con quel radiatore montato davanti quando tutti gli altri li avevano nelle fiancate attorno al baricentro. La scarsa competitività della B3 di Thompson causò anche dissapori nella squadra: Ickx corse il GP di Germania con una McLaren-Ford arrivando terzo, dopo aver visto quello d’Olanda da spettatore. Feci allora la B3S, che misi in pista in venticinque giorni. Con questa macchina Arturo Merzario batté il record a Fiorano. La B3S, ulteriormente affinata, divenne la 312 B3/B4 con la quale nel 1974 Clay Regazzoni sfiorò il titolo iridato.”


Il motore della Spazzaneve era il 12 cilindri della B2 o presentava degli sviluppi?

“Il motore era il ‘boxer’ della B2. Lo scriva tra virgolette, perché era un V di 180°, come ho più volte detto. La differenza sta nel cinematismo formato dall’albero motore e dalle bielle. E questo comporta una sostanziale differenza nel movimento dei pistoni. Ciò premesso, lo sviluppo del motore, che alla fine del ’72 erogava all’incirca 480-485 CV, era limitato dall’accensione. Quel V12 avrebbe potuto superare i 14.000 giri, ma non non c’erano accensioni in grado di seguirlo. Nel 1971, al Questor Gran Prix a Ontario (non valido per il Mondiale) vinto da Mario Andretti con la 312 B, eravamo a 13.500 giri, ma quasi inutilmente, visto che la potenza era erogata a 12.500. Un certo miglioramento si ottenne con il Dinoplex della Marelli, ma a quel punto subentrò il problema delle molle di richiamo delle valvole: si dovevano irrigidire le molle e ne soffrivano gli assi a camme. Si verificava dell’usura e finivamo il gran premio con una perdita di potenza soprattutto agli alti regimi. Alla fine ottimizzammo la coppia, accontentandoci di girare a 12.500-12.800 giri. I piloti però sapevano che il moto-re ne poteva sopportare di più e se ne servivano quando la situazione lo richiedeva: per esempio per un sorpasso. “

La Spazzaneve, che è sopravvissuta e oggi partecipa alle competizioni  riservate alle F1 storiche, resta testimonianza di un capitolo breve ma molto intenso nella lunga vita sportiva e tecnica di Maranello. Un capitolo fondamentale: da questa monoposto nacquero quelle che riportarono il titolo alla Ferrari dopo un lungo digiuno.

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