Introduzione
Chiamare una Ferrari di Formula Uno
“spazzaneve”? Mah!? Eppure questo è il nomignolo affibbiato, a causa
della particolare forma dell’alettone anteriore, alla monoposto progettata
dall’ing. Mauro Forghieri nel 1972. Per capirne la genesi dobbiamo andare
proprio al 1972, in cui la Ferrari 312 B2 si impone nel solo Gran Premio
di Germania: una vittoria rimasta isolata, ma significativa perché conseguita
sul circuito più difficile, il Nürburgring. Fra l’altro con una doppietta
di Jacky Ickx e Clay Regazzoni a coronamento di un week-end che vede il
pilota belga scattare dalla pole e segnare il giro più veloce in gara.
Altri brillanti piazzamenti erano stati colti nel corso dell’anno
(tra
i quali tre secondi posti), ma nel complesso la stagione, per
una somma d’inconvenienti a volte
banali o fortuiti, si era conclusa sottotono rispetto alle attese. La monoposto
del 1972 derivava dalla 312 B2 del1971, una macchina dalla sospensione
posteriore innovativa, con ammortizzatori orizzontali, pensata per assicurare
un migliore sfruttamento dell’impronta a terra dei pneumatici, che nel
frattempo avevano subìto un passaggio tecnico epocale: tra il 1970 e il
1971 erano diventati lisci.
Chiamare una Ferrari di Formula Uno
“spazzaneve”? Mah!? Eppure questo è il nomignolo affibbiato, a causa
della particolare forma dell’alettone anteriore, alla monoposto progettata
dall’ing. Mauro Forghieri nel 1972. Per capirne la genesi dobbiamo andare
proprio al 1972, in cui la Ferrari 312 B2 si impone nel solo Gran Premio
di Germania: una vittoria rimasta isolata, ma significativa perché conseguita
sul circuito più difficile, il Nürburgring. Fra l’altro con una doppietta
di Jacky Ickx e Clay Regazzoni a coronamento di un week-end che vede il
pilota belga scattare dalla pole e segnare il giro più veloce in gara.
Altri brillanti piazzamenti erano stati colti nel corso dell’anno
(tra
i quali tre secondi posti), ma nel complesso la stagione, per
una somma d’inconvenienti a volte
banali o fortuiti, si era conclusa sottotono rispetto alle attese. La monoposto
del 1972 derivava dalla 312 B2 del1971, una macchina dalla sospensione
posteriore innovativa, con ammortizzatori orizzontali, pensata per assicurare
un migliore sfruttamento dell’impronta a terra dei pneumatici, che nel
frattempo avevano subìto un passaggio tecnico epocale: tra il 1970 e il
1971 erano diventati lisci.
Assetto in crisi
La combinazione della nuova sospensione
con le gomme slick non si rivelò delle migliori, tant’è che la 312 B2
del 1971 (pur avendo vinto in Olanda con Ickx) soffriva di vibrazioni che
mettevano in crisi l’assetto, vanificando il vantaggio che la Ferrari
aveva nella maggiore potenza del propulsore. Nel 1972 i problemi legati
alle vibrazioni furono in gran parte risolti:
la 312 B2 di quell’anno presentava
una sospensione posteriore modificata e cerchi posteriori da 13 pollici
di diametro anziché da 15. Ma ormai è tempo di pensare al 1973 e
addirittura
al
1974: la B2 è al capolinea e la natura
della F.1, i cui tempi velocissimi non consentono pause nell’evoluzione
tecnica, è ancor più complicata dalla situazione politica italiana, dove
le difficoltà nelle relazioni sindacali mettono in difficoltà anche una
realtà come la Ferrari. Bisogna pensare ad una nuova vettura con la quale
puntare a quell’alloro piloti che sfugge dal 1964 e l’ing. Forghieri
ha in mente alcune idee per le monoposto future. Sono idee che vanno studiate,
e il modo migliore è di realizzare una monoposto-prototipo, destinata ai
collaudi più che alle gare. La B3, più ancora che un’evoluzione della
B2, dovrà essere un’auto di transizione verso un progetto completamente
nuovo.
La combinazione della nuova sospensione
con le gomme slick non si rivelò delle migliori, tant’è che la 312 B2
del 1971 (pur avendo vinto in Olanda con Ickx) soffriva di vibrazioni che
mettevano in crisi l’assetto, vanificando il vantaggio che la Ferrari
aveva nella maggiore potenza del propulsore. Nel 1972 i problemi legati
alle vibrazioni furono in gran parte risolti:
la 312 B2 di quell’anno presentava
una sospensione posteriore modificata e cerchi posteriori da 13 pollici
di diametro anziché da 15. Ma ormai è tempo di pensare al 1973 e
addirittura
al
1974: la B2 è al capolinea e la natura
della F.1, i cui tempi velocissimi non consentono pause nell’evoluzione
tecnica, è ancor più complicata dalla situazione politica italiana, dove
le difficoltà nelle relazioni sindacali mettono in difficoltà anche una
realtà come la Ferrari. Bisogna pensare ad una nuova vettura con la quale
puntare a quell’alloro piloti che sfugge dal 1964 e l’ing. Forghieri
ha in mente alcune idee per le monoposto future. Sono idee che vanno studiate,
e il modo migliore è di realizzare una monoposto-prototipo, destinata ai
collaudi più che alle gare. La B3, più ancora che un’evoluzione della
B2, dovrà essere un’auto di transizione verso un progetto completamente
nuovo.
Migliorare il telaio....
A questo punto la storia s’intreccia
con vicende che poco hanno a che fare con le piste: Enzo Ferrari si ammala
ed è costretto a disertare il proprio ufficio. Si prevede una lunga assenza,
con il timore, vista l’età, che non ce la faccia a superare la crisi.
A farne le veci dalla Fiat a Torino inviano l’ing. Colombo. La stampa
dell’epoca afferma che la Ferrari vince quando può contare sulla
superiorità
del motore: quando perde è colpa del telaio, non all’altezza di quelli
costruiti dai maestri inglesi. E’ un luogo comune, forse dettato dalla
reazione emotiva degli appassionati che sopravvalutano l’apporto del
motore
sulla competitività complessiva di una monoposto di Formula Uno. In questo
modo, tuttavia, deve pensarla anche Colombo, che convoca Forghieri per
affidargli l’incarico di progettare una monoscocca da far costruire in
Inghilterra. Forghieri non condivide questo modo di pensare e ha dalla
sua ottime ragioni. La soluzione che ha in mente per il futuro è la 312
T, quella con cui Lauda vincerà il Mondiale nel 1975 e che, evoluta nelle
versioni T2, T3 e T4, conquisterà altri due titoli iridati piloti.
La divergenza di vedute porta ad
una rottura: la progettazione della 312 B3 per il 1973 è dirottata
all’ufficio
tecnico diretto da Rocchi e l’incarico di costruirla affidato allo
specialista
britannico John Thompson, presso la ditta TC Prototypes Ltd di Weedon,
nei pres-si di Northampton. La stampa enfatizza la cosa, con il risultato
di creare un’attesa nei fan del Cavallino Rampante per vedere di chissà
quali meraviglie sarà capace la nuova monoposto di Maranello finalmente
costruita con “metodi inglesi”. Il destino della 312 B3 Spazzaneve,
auto
da corsa che non corse mai, si compie sullo sfondo di queste vicende.
A questo punto la storia s’intreccia
con vicende che poco hanno a che fare con le piste: Enzo Ferrari si ammala
ed è costretto a disertare il proprio ufficio. Si prevede una lunga assenza,
con il timore, vista l’età, che non ce la faccia a superare la crisi.
A farne le veci dalla Fiat a Torino inviano l’ing. Colombo. La stampa
dell’epoca afferma che la Ferrari vince quando può contare sulla
superiorità
del motore: quando perde è colpa del telaio, non all’altezza di quelli
costruiti dai maestri inglesi. E’ un luogo comune, forse dettato dalla
reazione emotiva degli appassionati che sopravvalutano l’apporto del
motore
sulla competitività complessiva di una monoposto di Formula Uno. In questo
modo, tuttavia, deve pensarla anche Colombo, che convoca Forghieri per
affidargli l’incarico di progettare una monoscocca da far costruire in
Inghilterra. Forghieri non condivide questo modo di pensare e ha dalla
sua ottime ragioni. La soluzione che ha in mente per il futuro è la 312
T, quella con cui Lauda vincerà il Mondiale nel 1975 e che, evoluta nelle
versioni T2, T3 e T4, conquisterà altri due titoli iridati piloti.
La divergenza di vedute porta ad
una rottura: la progettazione della 312 B3 per il 1973 è dirottata
all’ufficio
tecnico diretto da Rocchi e l’incarico di costruirla affidato allo
specialista
britannico John Thompson, presso la ditta TC Prototypes Ltd di Weedon,
nei pres-si di Northampton. La stampa enfatizza la cosa, con il risultato
di creare un’attesa nei fan del Cavallino Rampante per vedere di chissà
quali meraviglie sarà capace la nuova monoposto di Maranello finalmente
costruita con “metodi inglesi”. Il destino della 312 B3 Spazzaneve,
auto
da corsa che non corse mai, si compie sullo sfondo di queste vicende.
Intervista Mauro Forghieri
Con il consenso di Enzo Ferrari, Mauro
Forghieri progetta e fa costruire la Spazzaneve per sperimentare le soluzioni
che aveva ipotizzato per il futuro. Questo fu il motivo che portò alla
realizzazione di questa Ferrari che non corse nemmeno un gran premio, la
cui storia ci è raccontata dallo stesso progettista. L’ing. Mauro
Forghieri
è stato per trent’anni direttore tecnico
di Maranello, artefice delle macchine
da corsa che dagli anni ’60 agli ‘80 hanno dato alla Ferrari una
cospicua
mole di vittorie. Tra quelle di maggior rilievo figurano quattro
affermazioni
nel Campionato Mondiale Piloti e sette
titoli Costruttori in Formula Uno, cinque Campionati del Mondo nella categoria
Sport-Prototipo, due titoli Europei della Montagna, una Tasman Cup e una
Temporada in Argentina.
Ingegner Forghieri, si diceva
in quegli anni che la Ferrari, a differenza dei team inglesi, non avesse
una vera e propria monoscocca, attribuendo così i momenti di minore
competitività
ad una presunta inferiorità del telaio. Come mai?
“La Ferrari aveva una monoscocca. E
non era affatto inferiore come telaio. Il fatto è che sul termine
‘monoscocca’
è sempre stata fatta confusione. La prima vera monoscocca in Formula Uno
fu la Lotus 25 del 1962, cui fecero seguito le Ferrari 156 del 1961 e 158
del 1964. Gli altri ancora non avevano monoscocche. Era un tipo di costruzione
che derivava dalla tecnologia aeronautica, quando si passò da
un’intelaiatura
in tubi sottili, sopra i quali si chiodavano le lamiere, all’adozione
di metodi più sofisticati, utilizzando centi- ne d’alluminio sopra le
quali erano ugualmente chiodate le lamiere. La 156 e la 158 erano quindi
delle vere monoscocche, costruite come la Lotus 25: soltanto, per noi era
estremamente difficile adottare
la tecnica degli Inglesi, che prevedeva
la chiodatura mediante rivetti a scomparsa, perché non avevamo mano
d’opera
con esperienza specifica. Perciò trovammo una tecnica alternativa, che
però dava risultati equivalenti. La differenza con la costruzione degli
Inglesi era che noi adottavamo un modo diverso di unire le lamiere, un
metodo che avevamo inventato per poter costruire il telaio in casa, perché
negli anni Sessanta non c’erano molti soldi. Il budget era limitato, auto
stradali non se ne vendevano molte ed Enzo Ferrari doveva pensare prima
di tutto a tenere in piedi la ditta. Dovevamo realizzare il nostro lavoro
nel migliore dei modi con le risorse disponibili. Ma la vettura era a tutti
gli effetti una monoscocca. Nel 1965 disegnammo un telaio che divenne la
vettura di tre litri del ‘66, su cui utilizzammo quella tecnica
aeronautica
antecedente quella delle cosiddette monoscocche pure, anche perché mi resi
conto che in questo modo impiegavamo poco tempo. I risultati in termini
di rigidezza erano equivalenti, i ragazzi la realizzavano benissimo e,
cosa non trascurabile, non dovevamo costruire attrezzature specifiche.
Con l’arrivo dei serbatoi flessibili usavamo dei piccoli tubi a sezione
quadra: univamo le lamiere con delle macchine rivettatrici automatiche
e non c’era più la necessità di ribattere i chiodi perchè restavano
all’interno.
Questa tecnica non dava fastidio al serbatoio che poteva adagiarsi attorno
al tubo quadro. E la macchina era ugualmente una monoscocca. Quanto alla
competitività del telaio, posso affermare che al Nürburgring non
si vince se non si ha un ‘signor telaio’ e una macchina con
un’ottima
tenuta di strada. E noi su quel circuito, nel ’72, avevamo
dominato.”
Con il consenso di Enzo Ferrari, Mauro
Forghieri progetta e fa costruire la Spazzaneve per sperimentare le soluzioni
che aveva ipotizzato per il futuro. Questo fu il motivo che portò alla
realizzazione di questa Ferrari che non corse nemmeno un gran premio, la
cui storia ci è raccontata dallo stesso progettista. L’ing. Mauro
Forghieri
è stato per trent’anni direttore tecnico
di Maranello, artefice delle macchine
da corsa che dagli anni ’60 agli ‘80 hanno dato alla Ferrari una
cospicua
mole di vittorie. Tra quelle di maggior rilievo figurano quattro
affermazioni
nel Campionato Mondiale Piloti e sette
titoli Costruttori in Formula Uno, cinque Campionati del Mondo nella categoria
Sport-Prototipo, due titoli Europei della Montagna, una Tasman Cup e una
Temporada in Argentina.
Ingegner Forghieri, si diceva
in quegli anni che la Ferrari, a differenza dei team inglesi, non avesse
una vera e propria monoscocca, attribuendo così i momenti di minore
competitività
ad una presunta inferiorità del telaio. Come mai?
“La Ferrari aveva una monoscocca. E
non era affatto inferiore come telaio. Il fatto è che sul termine
‘monoscocca’
è sempre stata fatta confusione. La prima vera monoscocca in Formula Uno
fu la Lotus 25 del 1962, cui fecero seguito le Ferrari 156 del 1961 e 158
del 1964. Gli altri ancora non avevano monoscocche. Era un tipo di costruzione
che derivava dalla tecnologia aeronautica, quando si passò da
un’intelaiatura
in tubi sottili, sopra i quali si chiodavano le lamiere, all’adozione
di metodi più sofisticati, utilizzando centi- ne d’alluminio sopra le
quali erano ugualmente chiodate le lamiere. La 156 e la 158 erano quindi
delle vere monoscocche, costruite come la Lotus 25: soltanto, per noi era
estremamente difficile adottare
la tecnica degli Inglesi, che prevedeva
la chiodatura mediante rivetti a scomparsa, perché non avevamo mano
d’opera
con esperienza specifica. Perciò trovammo una tecnica alternativa, che
però dava risultati equivalenti. La differenza con la costruzione degli
Inglesi era che noi adottavamo un modo diverso di unire le lamiere, un
metodo che avevamo inventato per poter costruire il telaio in casa, perché
negli anni Sessanta non c’erano molti soldi. Il budget era limitato, auto
stradali non se ne vendevano molte ed Enzo Ferrari doveva pensare prima
di tutto a tenere in piedi la ditta. Dovevamo realizzare il nostro lavoro
nel migliore dei modi con le risorse disponibili. Ma la vettura era a tutti
gli effetti una monoscocca. Nel 1965 disegnammo un telaio che divenne la
vettura di tre litri del ‘66, su cui utilizzammo quella tecnica
aeronautica
antecedente quella delle cosiddette monoscocche pure, anche perché mi resi
conto che in questo modo impiegavamo poco tempo. I risultati in termini
di rigidezza erano equivalenti, i ragazzi la realizzavano benissimo e,
cosa non trascurabile, non dovevamo costruire attrezzature specifiche.
Con l’arrivo dei serbatoi flessibili usavamo dei piccoli tubi a sezione
quadra: univamo le lamiere con delle macchine rivettatrici automatiche
e non c’era più la necessità di ribattere i chiodi perchè restavano
all’interno.
Questa tecnica non dava fastidio al serbatoio che poteva adagiarsi attorno
al tubo quadro. E la macchina era ugualmente una monoscocca. Quanto alla
competitività del telaio, posso affermare che al Nürburgring non
si vince se non si ha un ‘signor telaio’ e una macchina con
un’ottima
tenuta di strada. E noi su quel circuito, nel ’72, avevamo
dominato.”
Carrozzeria più larga....
C’è però una differenza tra la Spazzaneve
e le precedenti monoposto della serie 312 B: alettone anteriore a
parte, la carrozzeria è assai più larga. Perché?
“La Spazzaneve fu costruita sulla
base della B2. Né poteva essere diversamente perché era una macchina
sperimentale.
Riuscii a costruirla spendendo pochissimi soldi, ma non era la monoposto
futura, quella con cui disputare la stagione successiva. Quella vera, quella
che avevo in animo di mettere in pista era la 312 T, ma di certo non lo
andavo a dire!
La Spazzaneve mi serviva per chiarirmi
le idee, per capire, in definitiva, la reale portata delle nuove soluzioni.
Quella forma di carrozzeria derivava dalle esperienze compiute in galleria
del vento a Stoccarda, dove avevamo visto che i prototipi, con la loro
notevole impronta a terra, avevano una deportanza maggiore rispetto
alle macchine di Formula. La Spazzaneve era stata pensata tenendo presente
questi dati sperimentali, perché, a parità di depressione per unità di
area, un’impronta a terra più elevata significa beneficiare di un maggiore
carico aerodinamico. Le successive prove in galleria del vento avevano
dimostrato che con la Spazzaneve avevamo una deportanza superiore a quella
della Lotus 72 (che era all’epoca assieme alle Tyrrell 005-006 la vettura
da battere) e delle nostre stesse monoposto precedenti. La
particolare
forma dell’ala anteriore, oltre a creare deportanza, serviva ad aumentare
la superficie a terra della vettura e a guidare i flussi d’aria lungo
la carrozzeria e verso i radiatori, che si trovavano nelle pance e non
più davanti. Questo spostamento delle masse radianti verso il centro dava
il vantaggio di una migliore maneggevolezza per effetto del ridotto momento
d’inerzia.”
All’epoca della Spazzaneve a che punto
era la ricerca in tema di aerodinamica sulle monoposto di F.1?
“Non c’erano ancora le minigonne o
più in generale il concetto di estrarre l’aria da sotto la vettura. Si
cercava di avere il fondo della macchina più in basso possibile, con lo
scopo di ricavare un po’ di effetto-suolo. Il resto del carico deportante
era ottenuto con gli alettoni. Bisognava lavorare su geometrie ed incidenze
per ottenere i carichi desiderati, cercando di non dumentare più
di tanto la resistenza dell’aria in modo da non penalizzare la velocità
massima. Molti ritengono che la prima vettura da corsa a montare un alettone
sia stata la Chaparrall nel 1967, ma non è vero: la prima fu una vettura
del 1923, ad opera del prof. Kamm. Nel 1959 Michel May, un tecnico
validissimo che fu anche nostro consulente, lo montò su una Porsche, ma
i commissari di gara della Targa Florio glielo fecero togliere. Già negli
anni Trenta, comunque, le vetture da record avevano appendici aerodinamiche.
Noi fummo la prima scuderia di F.1 a montare un alettone, al GP del Belgio
del 1968. Era regolabile ed agiva sul telaio: l’ala aumentava la propria
incidenza in curva e in frenata e la diminuiva in rettilineo. Fummo subito
imitati. Mi ricordo che Jack Brabham (che era un grande campione e un uomo
di notevole caratura) venne a vedere il nostro alettone applicato in prova
sulla vettura di Chris Amon. Il giorno dopo ne comparve uno sulla sua
Brabham-Repco. Era stato fatto con del legno: non diede risultati apprezzabili,
e non li poteva dare visto che era stato improvvisato mentre il nostro
era frutto di studi e ricerche. Ma è un episodio che fa capire la portata
della novità. Poi gli Inglesi li montarono sulle sospensioni dove erano
un po’ più efficaci, ma anche assai pericolosi a causa delle
sollecitazioni
che innescavano rotture catastrofiche, come avvenne al gran premio di Spagna
del 1969 alle Lotus di Hill e Rindt. La Federazione a quel punto prima
li abolì del tutto (già al successivo GP di Monaco) e poi li reintrodusse,
ma con precise regole che ne limitavano la larghezza, la posizione e
l’altezza
da terra, penalizzando
con ciò anche il nostro sistema che
era invece razionale e perfettamente sicuro.”
C’è però una differenza tra la Spazzaneve
e le precedenti monoposto della serie 312 B: alettone anteriore a
parte, la carrozzeria è assai più larga. Perché?
“La Spazzaneve fu costruita sulla
base della B2. Né poteva essere diversamente perché era una macchina
sperimentale.
Riuscii a costruirla spendendo pochissimi soldi, ma non era la monoposto
futura, quella con cui disputare la stagione successiva. Quella vera, quella
che avevo in animo di mettere in pista era la 312 T, ma di certo non lo
andavo a dire!
La Spazzaneve mi serviva per chiarirmi
le idee, per capire, in definitiva, la reale portata delle nuove soluzioni.
Quella forma di carrozzeria derivava dalle esperienze compiute in galleria
del vento a Stoccarda, dove avevamo visto che i prototipi, con la loro
notevole impronta a terra, avevano una deportanza maggiore rispetto
alle macchine di Formula. La Spazzaneve era stata pensata tenendo presente
questi dati sperimentali, perché, a parità di depressione per unità di
area, un’impronta a terra più elevata significa beneficiare di un maggiore
carico aerodinamico. Le successive prove in galleria del vento avevano
dimostrato che con la Spazzaneve avevamo una deportanza superiore a quella
della Lotus 72 (che era all’epoca assieme alle Tyrrell 005-006 la vettura
da battere) e delle nostre stesse monoposto precedenti. La
particolare
forma dell’ala anteriore, oltre a creare deportanza, serviva ad aumentare
la superficie a terra della vettura e a guidare i flussi d’aria lungo
la carrozzeria e verso i radiatori, che si trovavano nelle pance e non
più davanti. Questo spostamento delle masse radianti verso il centro dava
il vantaggio di una migliore maneggevolezza per effetto del ridotto momento
d’inerzia.”
All’epoca della Spazzaneve a che punto
era la ricerca in tema di aerodinamica sulle monoposto di F.1?
“Non c’erano ancora le minigonne o
più in generale il concetto di estrarre l’aria da sotto la vettura. Si
cercava di avere il fondo della macchina più in basso possibile, con lo
scopo di ricavare un po’ di effetto-suolo. Il resto del carico deportante
era ottenuto con gli alettoni. Bisognava lavorare su geometrie ed incidenze
per ottenere i carichi desiderati, cercando di non dumentare più
di tanto la resistenza dell’aria in modo da non penalizzare la velocità
massima. Molti ritengono che la prima vettura da corsa a montare un alettone
sia stata la Chaparrall nel 1967, ma non è vero: la prima fu una vettura
del 1923, ad opera del prof. Kamm. Nel 1959 Michel May, un tecnico
validissimo che fu anche nostro consulente, lo montò su una Porsche, ma
i commissari di gara della Targa Florio glielo fecero togliere. Già negli
anni Trenta, comunque, le vetture da record avevano appendici aerodinamiche.
Noi fummo la prima scuderia di F.1 a montare un alettone, al GP del Belgio
del 1968. Era regolabile ed agiva sul telaio: l’ala aumentava la propria
incidenza in curva e in frenata e la diminuiva in rettilineo. Fummo subito
imitati. Mi ricordo che Jack Brabham (che era un grande campione e un uomo
di notevole caratura) venne a vedere il nostro alettone applicato in prova
sulla vettura di Chris Amon. Il giorno dopo ne comparve uno sulla sua
Brabham-Repco. Era stato fatto con del legno: non diede risultati apprezzabili,
e non li poteva dare visto che era stato improvvisato mentre il nostro
era frutto di studi e ricerche. Ma è un episodio che fa capire la portata
della novità. Poi gli Inglesi li montarono sulle sospensioni dove erano
un po’ più efficaci, ma anche assai pericolosi a causa delle
sollecitazioni
che innescavano rotture catastrofiche, come avvenne al gran premio di Spagna
del 1969 alle Lotus di Hill e Rindt. La Federazione a quel punto prima
li abolì del tutto (già al successivo GP di Monaco) e poi li reintrodusse,
ma con precise regole che ne limitavano la larghezza, la posizione e
l’altezza
da terra, penalizzando
con ciò anche il nostro sistema che
era invece razionale e perfettamente sicuro.”
Perchè due monoposto....
La sua Spazzaneve fu portata avanti
assieme all’altra 312 B3, quella costruita voluta dai vertici Fiat e
costruita
in Inghilterra. Quale fu la ragione che spinse la Ferrari a costruire due
monoposto?
“Non c’erano due monoposto: quella
per la stagione 1973 era una, e non era la mia Spazzaneve. Quando arrivò
l’ing. Colombo, in veste non di progettista ma di dirigente, mi fu
proposto
di realizzare una nuova monoscocca come quelle inglesi. Io risposi che
la cosa importante era avere una macchina leggera e con un’elevata
rigidezza
torsionale. La nostra era un po’ più leggera delle altre ed era
altrettanto
rigida, e questi erano dati misurabili, non opinioni. Perché cambiarla?
Perché lo diceva Autosprint o qualche altro giornale?Non ci fu nulla da
fare. Diedero l’incarico di costruire questa monoscocca a Thompson, in
Inghilterra, che la fece con il radiatore dell’acqua nel muso. Quando
a Maranello si resero conto che la macchina non andava, che quel telaio
non dava alcun vantaggio rispetto ai nostri, tolsero perfino dei rivetti,
perché erano convinti che la scocca fosse troppo rigida. Io diedi le dimissioni
e a novembre ‘72 cominciai a lavorare in proprio. In quel periodo, nel
pieno della prima crisi energetica, lavorai per la Volvo ed anche per Enzo
Ferrari, che mi aveva commissionato alcuni incarichi. Nel frattempo proseguivo
con il progetto della 312 T con cambio trasversale fino a quando il
Commendatore,
uscito ad agosto ‘73 dalla clinica e ormai completamente ristabilito,
rientrò a pieno titolo in fabbrica. Mi chiese se me la sentivo di
mettere
a posto quella macchina lì (la B3 ‘inglese’, n.d.r.) che non era mai
stata minimamente competitiva, malgrado le tante modifiche. A tal punto
che la Ferrari non partecipò ai GP d’Olanda e di Germania del 1973, per
una ‘pausa di riflessione tecnica’. Risposi che non avevo intenzione
di metterla a posto, ma di cambiarla, perché così com’era non poteva
andare
bene. Aveva un momento d’inerzia troppo elevato, con quel radiatore
montato
davanti quando tutti gli altri li avevano nelle fiancate attorno al baricentro.
La scarsa competitività della B3 di Thompson causò anche dissapori nella
squadra: Ickx corse il GP di Germania con una McLaren-Ford arrivando terzo,
dopo aver visto quello d’Olanda da spettatore. Feci allora la B3S, che
misi in pista in venticinque giorni. Con questa macchina Arturo Merzario
batté il record a Fiorano. La B3S, ulteriormente affinata, divenne la 312
B3/B4 con la quale nel 1974 Clay Regazzoni sfiorò il titolo
iridato.”
Il motore della Spazzaneve era il 12
cilindri della B2 o presentava degli sviluppi?
“Il motore era il ‘boxer’ della B2.
Lo scriva tra virgolette, perché era un V di 180°, come ho più volte detto.
La differenza sta nel cinematismo formato dall’albero motore e dalle
bielle.
E questo comporta una sostanziale differenza nel movimento dei pistoni.
Ciò premesso, lo sviluppo del motore, che alla fine del ’72 erogava
all’incirca
480-485 CV, era limitato dall’accensione. Quel V12 avrebbe potuto superare
i 14.000 giri, ma non non c’erano accensioni in grado di seguirlo. Nel
1971, al Questor Gran Prix a Ontario (non valido per il Mondiale) vinto
da Mario Andretti con la 312 B, eravamo a 13.500 giri, ma quasi inutilmente,
visto che la potenza era erogata a 12.500. Un certo miglioramento si
ottenne con il Dinoplex della Marelli, ma a quel punto subentrò il problema
delle molle di richiamo delle valvole: si dovevano irrigidire le molle
e ne soffrivano gli assi a camme. Si verificava dell’usura e finivamo
il gran premio con una perdita di potenza soprattutto agli alti regimi.
Alla fine ottimizzammo la coppia, accontentandoci di girare a 12.500-12.800
giri. I piloti però sapevano che il moto-re ne poteva sopportare di più
e se ne servivano quando la situazione lo richiedeva: per esempio per un
sorpasso. “
La Spazzaneve, che è sopravvissuta e
oggi partecipa alle competizioni riservate alle F1 storiche, resta
testimonianza di un capitolo breve ma molto intenso nella lunga vita sportiva
e tecnica di Maranello. Un capitolo fondamentale: da questa monoposto nacquero
quelle che riportarono il titolo alla Ferrari dopo un lungo digiuno.
La sua Spazzaneve fu portata avanti
assieme all’altra 312 B3, quella costruita voluta dai vertici Fiat e
costruita
in Inghilterra. Quale fu la ragione che spinse la Ferrari a costruire due
monoposto?
“Non c’erano due monoposto: quella
per la stagione 1973 era una, e non era la mia Spazzaneve. Quando arrivò
l’ing. Colombo, in veste non di progettista ma di dirigente, mi fu
proposto
di realizzare una nuova monoscocca come quelle inglesi. Io risposi che
la cosa importante era avere una macchina leggera e con un’elevata
rigidezza
torsionale. La nostra era un po’ più leggera delle altre ed era
altrettanto
rigida, e questi erano dati misurabili, non opinioni. Perché cambiarla?
Perché lo diceva Autosprint o qualche altro giornale?Non ci fu nulla da
fare. Diedero l’incarico di costruire questa monoscocca a Thompson, in
Inghilterra, che la fece con il radiatore dell’acqua nel muso. Quando
a Maranello si resero conto che la macchina non andava, che quel telaio
non dava alcun vantaggio rispetto ai nostri, tolsero perfino dei rivetti,
perché erano convinti che la scocca fosse troppo rigida. Io diedi le dimissioni
e a novembre ‘72 cominciai a lavorare in proprio. In quel periodo, nel
pieno della prima crisi energetica, lavorai per la Volvo ed anche per Enzo
Ferrari, che mi aveva commissionato alcuni incarichi. Nel frattempo proseguivo
con il progetto della 312 T con cambio trasversale fino a quando il
Commendatore,
uscito ad agosto ‘73 dalla clinica e ormai completamente ristabilito,
rientrò a pieno titolo in fabbrica. Mi chiese se me la sentivo di
mettere
a posto quella macchina lì (la B3 ‘inglese’, n.d.r.) che non era mai
stata minimamente competitiva, malgrado le tante modifiche. A tal punto
che la Ferrari non partecipò ai GP d’Olanda e di Germania del 1973, per
una ‘pausa di riflessione tecnica’. Risposi che non avevo intenzione
di metterla a posto, ma di cambiarla, perché così com’era non poteva
andare
bene. Aveva un momento d’inerzia troppo elevato, con quel radiatore
montato
davanti quando tutti gli altri li avevano nelle fiancate attorno al baricentro.
La scarsa competitività della B3 di Thompson causò anche dissapori nella
squadra: Ickx corse il GP di Germania con una McLaren-Ford arrivando terzo,
dopo aver visto quello d’Olanda da spettatore. Feci allora la B3S, che
misi in pista in venticinque giorni. Con questa macchina Arturo Merzario
batté il record a Fiorano. La B3S, ulteriormente affinata, divenne la 312
B3/B4 con la quale nel 1974 Clay Regazzoni sfiorò il titolo
iridato.”
Il motore della Spazzaneve era il 12
cilindri della B2 o presentava degli sviluppi?
“Il motore era il ‘boxer’ della B2.
Lo scriva tra virgolette, perché era un V di 180°, come ho più volte detto.
La differenza sta nel cinematismo formato dall’albero motore e dalle
bielle.
E questo comporta una sostanziale differenza nel movimento dei pistoni.
Ciò premesso, lo sviluppo del motore, che alla fine del ’72 erogava
all’incirca
480-485 CV, era limitato dall’accensione. Quel V12 avrebbe potuto superare
i 14.000 giri, ma non non c’erano accensioni in grado di seguirlo. Nel
1971, al Questor Gran Prix a Ontario (non valido per il Mondiale) vinto
da Mario Andretti con la 312 B, eravamo a 13.500 giri, ma quasi inutilmente,
visto che la potenza era erogata a 12.500. Un certo miglioramento si
ottenne con il Dinoplex della Marelli, ma a quel punto subentrò il problema
delle molle di richiamo delle valvole: si dovevano irrigidire le molle
e ne soffrivano gli assi a camme. Si verificava dell’usura e finivamo
il gran premio con una perdita di potenza soprattutto agli alti regimi.
Alla fine ottimizzammo la coppia, accontentandoci di girare a 12.500-12.800
giri. I piloti però sapevano che il moto-re ne poteva sopportare di più
e se ne servivano quando la situazione lo richiedeva: per esempio per un
sorpasso. “
La Spazzaneve, che è sopravvissuta e
oggi partecipa alle competizioni riservate alle F1 storiche, resta
testimonianza di un capitolo breve ma molto intenso nella lunga vita sportiva
e tecnica di Maranello. Un capitolo fondamentale: da questa monoposto nacquero
quelle che riportarono il titolo alla Ferrari dopo un lungo digiuno.
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