14 October 2013

F1, intervista a Frank Williams

Abbiamo incontrato una leggenda della F1, Frank Williams. Un uomo che dedicato l’intera vita allo sport delle quattro ruote e che ha un rapporto molto particolare con l’Italia e soprattutto con Monza. Come raccontiamo in questa intervista in esclusiva...

Passato

Frank Williams torna sempre volentieri a Monza, che bazzicava già cinquant’anni fa. Perché prima di guadagnarsi il titolo di Sir, onoreficenza ricevuta dalla Regina Elisabetta nel 1989, e diventare titolare di una delle scuderie più importanti e vincenti della F. 1, con 114 vittorie negli oltre 600 GP disputati che hanno fruttato 9 titoli mondiali Costruttori e 7 Piloti, il tenace manager inglese ha dovuto fare una dura gavetta. E in quei periodi duri, qui in Brianza il buon Frank aveva trovato quasi una seconda casa e anche qualche aiuto per iniziare la difficile scalata ai vertici della F. 1. Come ci spiega in una intervista, con naturalezza, umorismo e in italiano fluente.

Quali ricordi ha di Monza e dell’Italia? “Venni in Italia per la prima volta nel 63 per correre con la F3. Pagavano 100 sterline come premio di partenza, feci gare a Monza, Caserta e Imola, restando in Italia per sei settimane. Così conobbi molti italiani, tra questi Tino Brambilla e Giancarlo Falletti che è sempre stato un amico leale”. Infatti, il giovane Frank faceva base presso l’officina di Tino Brambilla, tra i piloti più veloci della F3 di allora. “Lui viaggiava con un furgoncino scoperto sul quale dormiva. Quando veniva da me, invece, dormiva nella cameretta di mia figlia – ricorda Brambilla – e gli piaceva il minestrone che cucinava mia moglie. Ricordo anche che si svegliava la mattina presto per fare jogging. E’ una delle persone che stimo di più, perché nonostante ai tempi non navigasse nell’oro molti di noi si fidavano a dargli delle belle cifre in contanti per portarci i ricambi dall’Inghilterra e lui è sempre stato onesto”. “Ringrazio Brambilla per queste parole – risponde Williams -, ma la regola base per sopravvivere nel business è quella di essere chiari e onesti, perché il mondo è piccolo e quello delle corse è ancora più piccolo”.

Nell’ambiente si dice che Giancarlo Falletti sia stato qualcosa in più di un semplice amico, partecipando anche in qualità di azionista nella nascente scuderia Williams, ma il giornalista milanese (per anni inviato del Corriere della Sera ai gran premi di F. 1 e del Motomondiale, ndr.) sorvola limitandosi a dire che “mi interessa essere considerato un amico da Frank, che negli anni non si è mai fatto negare una volta al telefono e tuttora quando entro nell’hospitality mi dice che posso considerarla casa mia. Lo conobbi per la prima volta nel ‘63 a Caserta, dove si era presentato con una Brabham nuova di zecca che rovinò uscendo alla prima curva. Gli piaceva correre ma non aveva il talento per fare il pilota, così cominciò a fare correre gli altri e per fare partire la sua scuderia si adattò a tutti i lavori; ad esempio, lui abitava vicino all’aeroporto di Londra e di notte andava a pulire le piste perché alla mattina veniva pagato immediatamente. Perciò tanto di cappello per un uomo che ha saputo rimboccarsi le maniche per fare ciò in cui credeva, riuscendo ad arrivare al top”.

 

Torniamo a Williams; perciò quando torna a Monza respira un’atmosfera particolare?

 

“Certamente. Anche a Silverstone abbiamo fatto grandi gare, ma non c’è la stessa atmosfera. Qui c’è un pubblico veramente caloroso. Un po’ come avviene per i tifosi del calcio,
che si scaldano ancora prima del calcio d’inizio”.
 
Peraltro, proprio nel Gran Premio d’Italia del 1974 ottenne il primo risultato di rilievo in F. 1: 4° con la Iso pilotata da Arturo Merzario?
 
 
“Sì. Lui quando correva in Italia aveva una carica in più, e la macchina andava abbastanza bene”.
 
Ma la vera svolta è arrivata con le sponsorizzazioni degli Arabi, com’è avvenuto il contatto? 
 
“Avevo un caro amico abbastanza aristocratico che correva in F. 3 negli anni 65-66, ma quando terminò i soldi dovette iniziare a lavorare presso il concessionario e importatore
Ferrari e Maserati a Londra, presso il quale molti giovani arabi che erano lì per studiare comperavano le macchine. Noi abitavamo nello stesso appartamento e mi
raccontava di questi giovani che spendevano un sacco di soldi, così mi fece conoscere alcuni di questi ragazzi per convincerli ad investire nella F1. Nel 1977 cominciammo ad
avere le prime piccole sponsorizzazioni, anche dalla Saudia con cui avevo trattato personalmente, poi dal 78 arrivarono cifre più importanti e facemmo il salto di qualità”. 

 

E futuro

 

La F1 di allora e quella di adesso sono due mondi diversi, quale le piace di più?
 
“Non mi interessa tornare indietro. Preferisco la tecnologia, il maggiore business e lo spettacolo generale che è diventata la F1 attuale, in grado di attirare molti personaggi in
gamba sia dal punto di vista tecnico che commerciale. Credo che anche il pubblico possa capire e apprezzare meglio quello che facciamo, che è uno sport sofisticato. Per me è un
grande opportunità, oltre che un piacere far parte di questo mondo”. 
 
Le piace anche a livello regolamentare? 
 
“E’ difficile fare un regolamento che accontenti tutti. L’importante è che ci siano regole chiare e credo si sia andati nel senso giusto per limitare i costi”.
 
 
La Williams ha vinto sei volte il GP d’Italia, ne ricorda qualcuno in modo particolare?
 
Williams ci pensa un po’, poi con il caratteristico humor inglese ma raccontando una verità vissuta esclama: “quello del ‘74, quando ero molto preoccupato perché non
potevo pagare il conto dell’albergo”. 
 
Per la sua scuderia hanno corso tanti grandi piloti, chi ricorda in modo particolare?
 
“Mansell era un leone, mentre Prost aveva uno stile più delicato ed era intelligente. Senna aveva molte di queste doti insieme: stile e determinazione. E’ un vero peccato che sia mancato prematuramente, perché avrebbe potuto essere il più grande pilota di tutti i tempi. Quando è morto era ancora giovane e sarebbe stato imbattibile ancora per altri cinque o sei anni”.
 
Purtroppo ha dovuto vivere anche due grandi tragedie, con la morte di due suoi piloti, Pier Courage e Ayrton Senna, ha mai pensato di abbandonare?
 
“No. Perché l’automobilismo era la mia vita e il mio lavoro. E poi lasciare non avrebbe potuto cambiare niente di quanto era successo. Furono anche situazioni differenti.
Con Pier avevo condiviso momenti insieme, anche perché eravamo giovani. Con Ayrton c’era un rapporto più professionale, sia per le questioni economiche sia per quelle tecniche.
Nel suo lavoro era esigente e la sua morte è stata davvero una grave perdita, per lui ma anche per il Brasile e per noi, ma soprattutto mi ha ferito il fatto che i tifosi ci definirono
una squadra non all’altezza”.
 
Adesso è un po’ che la Williams manca dal gradino più alto del podio, possiamo ipotizzare un rilancio a breve?
 
“Ora è più difficile rispetto a vent’anni fa, perché sono coinvolti più costruttori, che hanno grandi risorse rispetto a un team come il nostro. Noi allora riuscivamo a fare la differenza grazie alla nostra capacità ed esperienza nelle corse, adesso loro hanno imparato e hanno molto più potenziale di noi. Perciò è decisamente più dura, ma non mi lamento”.

 

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