Villa d’Este, a pochi passi da Como, 25 aprile 2004. Il celebre e omonimo concorso d’eleganza annuale è in pieno svolgimento e il parco dell’hotel 5 stelle lusso che lo ospita è tutto un fiorire di Bugatti e Ferrari, di carrozzerie Castagna e Saoutchick, di mascotte firmate Lalique e di statuine dello Spirit of Ecstasys: quanto di meglio e di più lussuoso, insomma, lo stile e l’industria dell’automobile abbiamo mai sfornato.
In un’area, riservata a una selezione rappresentativa delle Gt italiane degli anni 60, c’è una strana Alfa Romeo che fa discutere: non è propriamente una bellezza (più che di una vettura finita ha tutta l’aria di un “work in progress”), ma le sue linee sono cariche di suggestioni e sembrano rappresentare le prove generali di alcuni tra i più famosi modelli del Biscione degli an 60 e 70. Nella maggior parte degli appassionati presenti quella vettura suscita un certo sconcerto, e in alcuni lo sconcerto si trasforma in aperta diffidenza: “Non la conosco, quindi non è mai esistita.E, se non è esistita, è un’auto inventata. Quindi un falso”.
INVENTATA
Reazione affrettata e dedu ne errata: basti pensare che realizzare un’auto così costerebbe oggi qualche centinaio di migliaia di euro, mentre con molto meno sarebbe possibile “inventarsi” (tanto per restare in casa Alfa) una ben più commerciabile e remunerativa 1750 GTAm o Giulietta SZ.La realtà è molto più semplice, ma anche molto più affascinante (oltre che decisamente più seria): questa Alfa Romeo viene dal limbo delle auto mai nate, in cui è rimasta per quasi 40 anni prima che la cultura e la preparazione del suo attuale proprietario, l’architetto milanese Corrado Lopresto, la strappassero a quella vita nell’ombra per portarla al gran debutto sotto i riflettori di Villa d’Este. Si tratta, in effetti, di un prototipo allestito su base 1750, alienato dall’Alfa Romeo nel 1985 (come provano le fatture che accompagnano la vettura) in blocco con altro materiale da avviare alla demolizione. Il prototipo è quindi stato ritirato in prima battuta da un demolitore in diretto rapporto con la Casa di Arese; la vettura, però, non è mai stata demolita ma previdentemente messa in , per poi essere rivenduta al suo proprietario. Fatta luce sul luogo di nascita delauto, restava però da risalire alla sua effettiva paternità.
OPINIONI
A Villa d’Este 2004 pareri e le opinioni si sprecavano: i vedeva il tocco della Italdesign in i dettagli anticipatori dell’Alfasud , chi osservava che il trattamento delle superfici vetrate autorizzava a pensare piuttosto a Pietro Frua. E non mancava neppure chi ipotizzava il lavoro di un carrozziere minore che avesse preso in prestito elementi stilistici dai grandi: come Dario Casale, per esempio. Il fantasioso artigiano di Bassano del Grappa, in effetti, campava allestendo carri funebri di grande qualità, ma non nascondeva una spiccata passione per le sportive e si era già distinto con una coupé su pianale Alfa Romeo Giulia. Insomma: mater (Alfa Romeo) certa; il pater, invece, sembrava volersi defilare. Il buon collezionista, spesso, sa essere anche un buon investigatore, e Corrado Lopresto non sfugge alla regola. Così, facendo alcune ricerche nell’archivio del Centro Stile Alfa Romeo, l’architetto milanese non tardò a ritrovare alcuni figurini senza firma di una coupé come la sua: si trattava di viste di fronte, di fianco e dietro, prive delle quote che corredano i veri e propri disegni tecnici, ma in scala. I segni delle chine bianca e nera sulla carta azzurra rivelavano una mano da vero artista. Il ritrovamento dei disegni gli dette la certezza che l’auto era effettivamente transitata nei centri creativi del Biscione, ma non bastava a rivelarne l’autore. La svolta arrivò quando Lopresto, felice per il ritrovamento, telefonò a un amico, che gli pose alcune domande molto circostanziate sui disegni. “Hai detto carta azzurra?” gli chiese la voce dall’altra parte del telefono.
GIUGIARO
Solo pochi addetti ai lavori lo sanno, ma la carta Canson blu è il supporto preferito da Giorgio Giugiaro per i suoi figurini, che non sono mai schizzi in prospettiva deformata, dai quali sarebbe difficile ricavare le dimensioni reali, e neppure presentano scenografie che aumentano il pathos ma poi complicano non poco il lavoro necessario alla trasposizione delle linee sui veri e propri disegni tecnici. Forte di questa inequivocabile traccia, Lopresto riuscì a incontrare l’architetto Emilio Mario Favilla, a suo tempo designer presso il Centro Stile Alfa Romeo.
Favilla ricordava che quella coupé non era nata nel Centro Stile, ma ci era arrivata direttamente dalla Italdesign di Giugiaro e Mantovani come auto finita. E ricordava pure che su un lato montava due ruote in lega, sull’altro due cerchi d’acciaio: un modo semplice e pratico per agevolare il lavoro di chi avrebbe dovuto valutare l’effetto dell’una e dell’altra soluzione. Favilla ricordava con precisione la successione dei fatti, tanto da affermare che i disegni probabilmente anticipavano la realizzazione della vettura, perché fin dal primo momento questa presentò l’unico elemento voluto personalmente dal Centro Stile Alfa Romeo: il quadrifoglio sul montante posteriore. Al suo posto Giugiaro aveva immaginato una griglia a tre barre che avrebbe prolungato visivamente la linea del finestrino posteriore: ma a ben guardare la grata a quadrifoglio era un’idea che tornava al mittente, perché proprio Giugiaro l’aveva concepita nel 1964 per la show car Giulia Canguro, creando così un motivo al tempo stesso sia decorativo, sia funzionale.