Con la “mia” Alfasud trasformata in scintillante principessa, diventava d’obbligo un incontro con re Giorgio, al secolo Giorgetto Giugiaro. Anche perché la rossa milanese era davvero ancora mia! A causa dei tempi biblici della medievale burocrazia italica che regna nei purgatori della Motorizzazione Civile e negli inferi del Pubblico Registro Automobilistico, la carta di circolazione della piccola Alfa portava ancora il mio nome quando è passata alla corte dei Giugiaro. Ci sono voluti mesi di attesa per poter effettuare il passaggio di proprietà dalla defunta prima (e unica) intestataria della vettura a me: accettazioni di eredità, istanze di giudici tutelari per questioni familiari che non sto a spiegare… insomma, le solite carte bollate che rendono il nostro Paese sempre più all’avanguardia. Al di là delle battute -il Cavalier Giugiaro è comunque rimasto di sasso quando gli ho comunicato, ovviamente scherzando, che l’auto era ancora mia- non mi sembrava vero poter incontrare uno dei maestri del design automobilistico mondiale per parlare di una vettura da lui disegnata e scampata per un soffio alla demolizione.
Come mai un’icona come l’Alfasud mancava nella sua collezione?
«Mancava questa come ne mancano ancora tante altre. Ho deciso di comprare tutte le vetture che ho disegnato, perché in tanti anni di lavoro non ho mai conservato niente. Anzi, ad un certo punto abbiamo venduto le vetture e i prototipi che avevamo perché la gestione e la manutenzione erano diventate molto impegnative. Ti rendi conto che rappresentano un valore affettivo, però costano! Ultimamente ho acquistato una Ghibli, una Mangusta e una BMW M1. Mia moglie mi da del matto».
Cos’ha provato rivedendo l’Alfasud?
«Caratterialmente rimango abbastanza indifferente a questo genere di emozioni. Osservo le mie vetture del passato con occhio critico, le vedo con distacco. Certo che quando vedo i lavori di tanti anni fa mi rendo conto di quanto eravamo ingenui. Oggi noto tutti quegli aspetti che all’epoca non erano per niente considerati: il parabrezza poco inclinato, il tetto orizzontale, gli sbalzi arrotondati per risparmiare peso. Ma lo stesso vale per ciò che realizziamo oggi: fra dieci anni verranno fuori tutti i particolari criticabili».
Proviamo a fare un salto nel 1967, quando l’ingegner Rudolf Hruska le affidò il progetto Alfasud...
«Aldo Mantovani e io stavamo muovendo i primi passi con la Italdesign, ma avevamo già avuto esperienze importanti con i giapponesi della Isuzu e della Mitsubishi. Eravamo strutturati bene per offrire servizi completi, dalla definizione dello stile fino allo studio dei processi produttivi. Solo in un secondo momento è arrivata l’Alfa Romeo con il progetto Alfasud perché, a differenza di Pininfarina e Bertone, noi potevamo impostare il tutto per la grande serie. Conoscevo Hruska da quando era alla Simca, perché io all’epoca ero ancora da Bertone e avevo disegnato per i francesi la 1000 Coupé.
L’Alfasud è una vettura fatta di corsa partendo dal foglio bianco. Hruska dettava le misure a un livello maniacale. Tutti i venerdì veniva da noi a controllare l’abitabilità al millimetro. Era inamovibile sulle misure e sulla distribuzione del peso della scocca. Ricordo che per fare la pedaliera come voleva lui e mantenere le distanze tra i pedali che aveva stabilito, avevamo ristretto i pedali! Stesso discorso per il baule posteriore: dovevano starci quattro valigie 210x700x450 millimetri (che abbiamo faticato non poco a trovare sul mercato), tanto che le cerniere dello sportello abbiamo dovuto montarle esternamente perché altrimenti non avremmo raggiunto l’obiettivo. Cerniere poi contestate da tutti, ma non c’era stato verso di far cambiare idea a Hruska. Però quelle quattro valigie non stavano nemmeno in una Mercedes, ma sull’Alfasud sì».
Prima dell’Alfasud aveva già realizzato vetture simili?
«No, non avevo mai realizzato berline con le caratteristiche dell’Alfasud, una vettura che di fatto tracciò una nuova strada per i modelli compatti a quattro porte perché fino ad allora erano tutti a tre volumi».
Sarebbe possibile creare oggi qualcosa di innovativo, a livello di stile, come aveva fatto quasi cinquant’anni fa con l’Alfasud?
«All’epoca era più facile, perché una vettura come l’Alfasud non esisteva. Per questo abbiamo avuto buon gioco nel fare una ricerca del genere. C’era la volontà di Hruska di fare una vettura comoda come potrebbe essere oggi la Golf, ma l’Alfasud è ancora più spaziosa. Adesso si realizzano degli stampi che hanno una perfezione esasperata. Le lamiere sono ben fatte, ben stampate, con curvature perfette. Una volta si guardava il complesso della vettura, oggi si esamina ogni particolare come negli orologi. Si cercano delle linee e delle sculture per incuriosire l’utente. I costruttori ci portano a fare delle cose che a noi vecchi del mestiere non piacciono tanto. Si cerca sempre qualcosa che possa differenziare. Ma non è detto che questo porti a realizzazioni armoniose o di buon gusto. È tutto un gioco di visione. La semplicità, che è sempre stata una prerogativa italiana, si sta evolvendo».
All’epoca dell’Alfasud aveva avuto a che fare con un colosso come l’Alfa Romeo di quel periodo. Oggi ha a che fare con un altro colosso, che è Volkswagen: cosa è cambiato in questi rapporti? Ci sono similitudini tra le due realtà?
«Ai tempi dell’Alfasud era tutto più semplice. In cinque o sei persone si decideva come fare una vettura. Oggi c’è un apparato spaventoso. Una volta potevamo inventare tutto. Oggi bisogna attenersi a parametri ben stabiliti e non modificabili. Oggi quelli che hanno potere decisionale nelle industrie automobilistiche vogliono vedere un sacco di schizzi fuori della logica. Vogliono vedere delle cose inesistenti e allora scatenano tutti gli studi di design che hanno in giro per il mondo e chi ha più coraggio e più incoscienza vince. Poi, quando bisogna tradurre lo schizzo in realtà, tutto cambia, perché sono impossibili da realizzare: ruote enormi, mancanza di spazi per la meccanica e via discorrendo. Chi deve decidere non vuole vedere la realtà. C’è una prima fase illusoria voluta da tutti. Tutti vogliono illudersi. C’è la fase iniziale di esaltazione e di illusione. Vogliono vedere una bella donna, ma poi quella che sposano sarà così così. Quando disegnavo io partivo con schemi reali, con le dimensioni reali. Non c’era tempo per esaltarsi ma bisognava subito razionalizzare. Nella mia vita non ho mai fatto uno schizzo per invogliare a seguire un sogno. I giapponesi mi dicevano sempre che facevo dei brutti disegni ma delle belle auto».